Nel 2017, 48mila i giovani sono andati all’estero. Non sempre va bene

IL RAPPORTO / 2 Da gennaio a dicembre 2017 si sono iscritti all’Aire (Anagrafe degli italiani all’estero) quasi 243mila connazionali. Il 37,4 per cento di chi parte (cioè quasi 48mila persone) ha tra i 18 e i 34 anni. I giovani adulti – ovvero la classe tra i 35 e i 49 anni – sono invece un quarto del totale, ma dal confronto con l’anno precedente risulta un aumento di +2,8 per cento (in valore assoluto quasi 900mila). Non sempre, per loro, emigrare significa migliorare, soprattutto se le identità sono ancora in formazione. Gli spazi metropolitani, le realtà cosmopolite come Londra o New York – spiegano i ricercatori della fondazione Migrantes – «portano la promessa di una libertà illimitata e il rischio di un forte anonimato per i più vulnerabili. Si tratta di malinconie, di amori non corrisposti, di separazioni, di delusioni o fallimenti, ma anche di successi inaspettati e scelte difficili che possono finire in disperazione».

In 126 a Londra senza fissa dimora

Solo a Londra vivono 126 connazionali senza fissa dimora. I vissuti a contatto con terre lontane possono attivare fragilità, mettendo le persone di fronte a paure difficili da superare. Il trattamento riservato agli italiani emigrati rispecchia, del resto, la ruvidità dell’accoglienza offerta a chi giunge in Italia dall’Africa o da altri continenti.

Di connazionali che vivono in terre lontane parliamo con Delfina Licata, la ricercatrice che ha curato il rapporto della fondazione Migrantes Italiani nel mondo. Si parla oggi molto spesso d’immigrazione o emigrazione. Quanto sono appropriate queste parole, Licata?

«Le parole emigrazione e immigrazione sono sempre più sostituite da migrare e mobilità, per superare la loro intrinseca rigidità. Con questi termini s’intendeva infatti una specifica traiettoria, un tempo e un progetto migratorio scritto a priori, che prevedeva l’inserimento nella meta della destinazione prescelta. È il caso delle traversate oltreoceano dei piroscafi stracarichi di italiani che, dopo giorni e giorni – se non mesi – di navigazione, arrivavano in America o in Australia. Sono riconoscibili in questa descrizione i treni con vagoni stracarichi di connazionali e valigie che attraversavano le Alpi alla volta della Svizzera, della Germania o del Belgio. Vengono in mente pure cartoline e fotografie in bianco e nero di fine Ottocento e inizio Novecento, ma anche degli anni Cinquanta e Sessanta».

Ma come si declina, attualmente, per gli italiani, la parola migrazione?

«Immediato appare il legame con le partenze continue e confuse, precarie scelte personali e professionali che portano a diversi luoghi in tempi ravvicinati, a continui pendolarismi, doppi altrove, contratti plurimi e flessibilità a tutti i costi. Le parole non sono neutre, scrive papa Francesco, né lasciano mai le cose come stanno. La loro fecondità è legata a una condivisione della vita; è proporzionata alla disponibilità con cui accettiamo di lasciarci interrogare e coinvolgere dalla realtà, dalle situazioni e dalle storie delle persone».

m.v.

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