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Mario Martone: «Solo dubitando si può trovare»

Mario Martone: «Solo dubitando si può trovare»

L’INTERVISTA Per Mario Martone è stata la prima volta nelle Langhe. Il regista napoletano, che per amore del teatro ha trovato casa in Piemonte, è stato ospite lo scorso giovedì del Laboratorio di resistenza permanente della fondazione Emanuele di Mirafiore a Serralunga. Direttore per un decennio (2007-2017) del Teatro stabile di Torino, Martone ha parlato del suo ultimo film, del legame fra arte e impegno civile, di rivoluzioni che non si compiono ma non per questo falliscono.

Martone, Capri-Revolution chiude una trilogia ideale aperta dal film risorgimentale Noi credevamo e proseguito con il biopic dedicato a Leopardi Il giovane favoloso. Cosa lega insieme immagini, luoghi e personaggi tanto differenti?

«La tensione verso il cambiamento che attraversa tutti i film, la spinta ideale di personaggi apparentemente lontani. La curiosità della giovinezza che si fa motore di trasformazioni individuali e collettive. E poi Leopardi con la sua filosofia. Una lezione modernissima perché senza illusioni la vita non è degna di essere vissuta».

La sua carriera si distribuisce equamente fra cinema e teatro. Come si possono conciliare linguaggi espressivi diversi?

«Cinema e teatro sono cantieri separati ma ci sono porte che li collegano. Lo spazio ha un senso nel teatro come nel cinema. Se a teatro amo abbattere la “quarta parete” per favorire la dialettica fra spettatore e personaggi, ritengo che anche il cinema possa generare una riflessione collettiva su varie questioni e coinvolgere attivamente chi guarda».

E su quali problemi pensa sia necessario favorire un dibattito?

«Ad esempio il nostro rapporto con la terra, la natura, come dobbiamo considerare il progresso. Personalmente mi sono affidato a Leopardi, ma svecchiarlo sarebbe stata un’operazione sciocca. No. Dobbiamo immaginare i grandi del passato come fossimo loro contemporanei, solo in questo modo possiamo comprenderne il percorso, i dubbi, la vita».

Lei ha affrontato il tema della rivoluzione (e della sua sconfitta) a teatro con La morte di Danton di Büchner. Il radicalismo non paga?

«Quello di Büchner è un testo complesso, non a caso scritto da un uomo giovane e appassionato. Si deve essere radicali ma non bisogna essere ottusi. La radicalità può comprendere l’ascolto. Parafrasando ancora una volta Leopardi: solo dubitando è possibile trovare qualcosa».

La sua formazione teatrale l’ha portata a partecipare, negli anni ’70 e ’80, a numerosi collettivi artistici. Cosa resta di quel modo sperimentale d’esprimersi?

«Ho sempre creato dei gruppi e anche a decenni di distanza resto affezionato all’idea che l’energia creativa possa trasmettersi all’interno di organismi assembleari. Come direttore dello Stabile di Torino non ho voluto dare un’impronta monocratica, sebbene – sia chiaro – riconosca i meriti della tradizione strehleriana. Ho creduto opportuno non imporre la mia visione. Al contrario, ho preferito che i linguaggi si mescolassero e i teatri torinesi potessero offrire una più ampia varietà di voci».

Alessio Degiorgis

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