Stefano D’Andrea e tutto ciò che i padri non dicono

Stefano D'Andre

ALBA Raccontare la paternità: una sfida che sempre più scrittori italiani stanno raccogliendo, a partire dal vero e proprio caso letterario dell’illustratore Matteo Bussola, ma anche, ad esempio, Fabio Volo. Domenica 31 marzo alle 17 alla libreria La Torre, in via Vittorio Emanuele II 19G, sarà possibile incontrare Stefano D’Andrea, autore de “Il padre è nudo. Tutto quello che gli uomini non dicono” (Baldini e Castoldi): l’appuntamento è organizzato dall’associazione Aldeia, nata pochi mesi fa da un gruppo di professioniste per riflettere sui temi della nascita e della crescita. L’autore dialogherà con un padre albese, il ricercatore Stefano Montaldo, e il pomeriggio sarà accompagnato da tisane e merenda offerte da Quetzal.

D’Andrea ha risposto alle nostre domande.

“Il padre è nudo” è un titolo potente: come è nato?

“Guardando una delle performance di Gianni Miraglia che si esibiva in un minuscolo teatro milanese praticamente nudo, improvvisando mentre sollevava fusti di birra: si chiamavano “Monologhi della fatica”. Erano un flusso di coscienza che scendeva dalla sua mente geniale, e l’elemento della nudità mi faceva l’effetto del “prendo su di me la vostra vergogna, così potete sentirvi liberi”. L’idea è quella: mi metto io a nudo al posto dei padri, mi espongo io.”

E venendo al sottotitolo, c’è molto che non si dice fra uomini?

“Gli uomini usano l’amicizia in un modo molto efficace, se ci si vede dopo giorni o anni è lo stesso, non c’è bisogno di fare riassunti: stare insieme è già quanto basta. Non ci si giudica mai. Però non ci si espone, è l’altro lato della medaglia; quindi non si condividono le difficoltà, e non si aiutano gli amici a crescere o a stare meglio. Credo sia un retaggio culturale millenario che solo ora stiamo cercando di modificare. È un processo lento ma qualcuno deve pur farne parte consapevolmente.”

Qual è l’aspetto che ti ha maggiormente sorpreso della paternità, in positivo o in negativo?

“In positivo nulla, cioè è come quando hai 14 anni e leggi “Romeo e Giulietta” – chiaramente andrebbe inserito nei programmi ministeriali Shakespeare al posto di Verga o Manzoni ma questo è un altro tema – e poi l’amore lo provi, sei scioccato ma non sei sorpreso. In negativo tantissime cose. Fare un figlio poi mi ha reso un amico meno presente, un compagno meno attento e gentile, un lavoratore più distratto: sono peggiorato come persona, per farla breve. Questo mi dispiace.”

Ti senti parte della neonata corrente letteraria dei “padri scrittori”? Se sì, oppure no, perché?

“Di fatto scrivo di paternità e quindi sì, ma d’istinto avrei risposto che il mo lavoro è proprio “contro” quella visione, che piace tanto, troppo, alle mamme, di un papà sereno e felice che racconta la magia di questa nuova condizione. Credo sia necessario dire tutta la verità, e il compito di chi scrive è farla passare senza saccenza, presunta precisione o noia, ma stimolando invece le emozioni e, quindi, raccontando storie.”

È difficile oggi trovare una propria identità di padre?

“È, in poche parole, l’assunto di base delle 400 pagine del libro.”

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

“Un romanzo narrato dal punto di vista di un gatto, a Parigi. Oltre ad altre settantacinque cose.”

Adriana Riccomagno

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