Morto Gianluigi Gabetti, consigliere della famiglia Agnelli, premiato nel 2008 con il Tartufo dell’anno

Morto Gianluigi Gabetti, consigliere della famiglia Agnelli, premiato nel 2008 con il Tartufo dell'anno

MURAZZANO piange la scomparsa di Gianluigi Gabetti, da sempre legato alla sua terra natia. Si è spento infatti nella notte tra lunedì e martedì, a Milano, Gianluigi Gabetti, manager e consigliere della famiglia Agnelli. Aveva 94 anni. Gabetti aveva iniziato la carriera alla Banca Commerciale, poi era passato in Olivetti. Mentre lavorava per Olivetti corporation of America incontrò Gianni Agnelli, che gli offrì di rientrare in Italia come direttore generale dell’Ifi, la holding finanziaria della famiglia di cui poco dopo diventò amministratore delegato. Dal 2003 al 2008 è stato presidente dell’Ifil, poi di Exor, successivamente presidente d’onore. Nel 1982 è stato nominato Cavaliere del Lavoro. Vicepresidente della Fiat dal 1993 al 1999, negli anni successivi aveva lavorato per assicurare la successione di John Elkann alla guida del gruppo.

Gabetti era nato a Murazzano, paese in cui ha vissuto gli ultimi anni della sua vita e con cui ha mantenuto un legame fortissimo. Giorgio Manfredi, attuale sindaco di Murazzano, raccontava con queste parole la storia di Gabetti e il suo rapporto con il paese: «Prima impiegato in banca, si è trasferito poi a New York come direttore del gruppo Olivetti negli Stati Uniti, incontrando e conoscendo molte persone. Dal ’58 al ’71 si è visto poco in paese, perché troppo impegnato all’estero, a differenza del fratello Roberto che ha continuato a frequentare Murazzano. Nel 1971 è stato chiamato all’ Ifil da Giovanni Agnelli. Dopo la morte di Umberto Agnelli è stato presidente del “Giovanni agnelli spa”, ricoprendo, in pratica, la più alta carica di tutto il gruppo Fiat. Ha affiancato John Elkann che lo ha succeduto perché designato dall’Avvocato. Ha vissuto a Murazzano nella borgata Cassadò, dove si trova un’ex tenuta di caccia della famiglia Savoia». In una delle sue ultime interviste Gabetti ha detto, a proposito di Murazzano: «Ho vissuto un ritorno alle radici a una terra che mia moglie da poco scomparsa scoprì con grande curiosità: anche la mia famiglia è stata contagiata da questa passione, mia figlia possiede una casa vicino alla mia».

Negli anni ha partecipato a tutte le iniziative murazzanesi ma senza rendersi protagonista. Ha voluto che fossero affrescati diversi dipinti del Santuario della Madonna di Hall a cui era particolarmente legato: qui volle che si svolgessero i funerali della moglie nel 2008 e non ha mai mancato una visita per messe e concerti.  Ha contribuito da sempre con ingenti offerte per le scuole locali, che hanno permesso di rinnovare tutto il sistema informatico: nel 2013 sono stati acquistati circa 15 nuovi computer che hanno alimentato le speranza di sopravvivenza di questo piccolo istituto. «Gabetti è una persona intelligente, arguta e disponibile», raccontava ancora Manfredi, «una volta gli ho telefonato per dirgli che il muro del cimitero stava per cedere. In pochissimi giorni abbiamo ricevuto dei finanziamenti e allora l’ho richiamato per specificare che mancavano ancora tre metri di altezza prima che crollasse. Si era mosso subito per evitare che avesse danni ulteriori».

Debora Schellino

Morto Gianluigi Gabetti, consigliere della famiglia Agnelli, premiato nel 2008 con il Tartufo dell'anno 1

Nel 2008, come presidente dell’Ente fiera internazionale del tartufo bianco d’Alba fu Alberto Cirio, assieme al sindaco Giuseppe Rossetto a consegnare a Gianluigi Gabetti il “Tartufo dell’anno”. Questo il ricordo di Cirio: «Un grande piemontese. Un uomo d’altri tempi. Gianluigi Gabetti, come me, aveva le sue radici nelle Langhe, ma ha saputo mettere la sua origine di provincia al servizio di un Piemonte che fosse grande. Da lui c’è tanto da imparare. Io ho avuto l’onore di premiarlo con il riconoscimento più importante che la mia città, Alba, dà ai figli del suo territorio. Sono triste per la sua scomparsa, ma orgoglioso di averlo conosciuto e di aver percorso un pezzo della mia vita al suo fianco».

Riprendiamo l’intervista che fu pubblicata sul numero di Gazzetta d’Alba dell’11 novembre 2008, in occasione della consegna del Tartufo dell’ano.

La lezione di Wall Street

Gianluigi Gabetti è nato a Torino nel 1924. Laureato in legge all’Università di Torino, ha iniziato la sua carriera presso la sede torinese della Banca commerciale Italiana. Passato all’Olivetti, nel 1965 viene eletto presidente dell’Olivetti corporation of America. Nell’ottobre 1971 viene nominato direttore generale dell’Ifi, l’Istituto finanziario industriale, del quale diventa anche amministratore delegato nel marzo 1972. È stato inoltre vicepresidente della Fiat da novembre 1993 a giugno 1999. Lasciate le cariche per limiti di età, è oggi presidente della Giovanni Agnelli e C. Sapaz e presidente d’onore dell’Ifil, la società d’investimenti del gruppo Agnelli. Gabetti fa parte inoltre dei Consigli di amministrazione della fondazione Agnelli e di Ifi. È cavaliere del lavoro, Presidente di Lingotto musica, membro del Comitato esecutivo del Consiglio per le relazioni tra Italia e Stati Uniti e life trustee del Museum of modern art of New York.

Quanto ha contato l’origine piemontese nella sua carriera, dottor Gabetti?

«Hanno contato i valori, che mi sono rimasti nel sangue. A meno di due anni mi sono spostato da Torino, dove vivevo, con la mia famiglia. Era il 1926, mio padre fu chiamato come viceprefetto a Riva del Garda, dove il regime lo mandò per “tenere a bada” Gabriele D’Annunzio, che viveva a Gardone. Da allora mio padre ebbe incarichi in diverse città italiane, Roma, Trieste, La Spezia, e tutti noi ci spostammo con lui. È così cresciuta la curiosità di luoghi nuovi, con il forte richiamo verso quelli di partenza. Mi sono allenato al distacco, nella speranza del ritorno. Mio padre era molto affezionato al Piemonte, in particolare alla sua Murazzano. Così è stato anche nella mia vita. Dopo un periodo iniziale di lavoro presso la Banca commerciale di Torino, fui per 13 anni impegnato all’Olivetti in America. Ma il richiamo del Piemonte era costante. Tornavo almeno una volta l’anno e facevo capolino a Murazzano. Ha partecipato a questo affetto anche mia moglie, che era americana, sviluppando prima curiosità, poi un grande attaccamento per questa terra particolare che sono le Langhe. Tornato in Italia per lavorare con il gruppo Agnelli ho ritrovato queste radici, che tutta la famiglia ha continuato a coltivare».

I piemontesi sono troppo riservati e rigorosi?

«Si diceva un tempo che sono bogia nen, che non amano spostarsi. Ma a me piace ricordare la versione – che ritengo corretta –, del generale che disse ai suoi soldati di fronte ai nemici che si preparavano all’attacco: “Bogé nen, non vi muovete”. I piemontesi sono gente di montagna e i montanari sono solitari e taciturni. L’evoluzione ci ha portati a non essere da meno a nessuno, anche nella capacità di comunicazione, che ritrovo però sempre più sobria. E devo dire che l’apprezzo molto».

Posto questo suo affetto per la Langa e il Piemonte, che cosa significa ricevere il Tartufo dell’anno?

«Credo mi venga riconosciuto l’attaccamento a questa terra e ne sono felice. Vengo giudicato fedele nei sentimenti verso la Langa, anche se ritengo vi siano altri che se ne sono occupati in modo più attivo e meritevole».

Lei ha scommesso su un giovane, John Elkann, passandogli il testimone dell’Ifil. Forse questa è una storia di famiglia che prosegue, ma più in generale: in Italia, a suo avviso, i giovani sono poco o sufficientemente valorizzati?

«La domanda è molto attuale, più in Italia che altrove. Negli Stati Uniti e in Europa il ’68 fu un movimento che diede luogo a grandi e scomposte reazioni, da cui poi derivarono riforme straordinarie. Da noi non è accaduto e anche a causa della mancanza di meccanismi di ricambio siamo in ritardo, sebbene negli ultimi anni si siano accelerati i tempi in senso inverso. Per Elkann, un’illuminata visione dell’avvocato Agnelli consentì d’identificare precocemente nel nipote John la figura del leader. Toccò poi ame l’esperienza di lavoro comune per l’affinamento di attitudini nei confronti di responsabilità crescenti. Con gioia gli ho ceduto gran parte delle mie attività gestionali. In generale, sono sempre stato vicino ai giovani. Sembra facile retorica, ma ho imparato più da loro che dagli anziani».

Ha un ricordo particolare dell’avvocato Agnelli?

«Sono tanti… (si sente la commozione, ndr). Ma, visto che siamo in Langa, mi sovvengono le sue visite. Più di una volta, vedendo le pale di un elicottero, mi torna l’immagine dell’Avvocato. Accadeva, infatti, che, dovendomi parlare e conoscendo il mio attaccamento a Murazzano, giungesse in elicottero. Il più delle volte però veniva in auto: gli piacevano, quando non aveva premura, le nostre strane colline, con le loro strade tortuose. Penso fosse il suo modo di riconoscere il mio affetto per questi luoghi».

Nei giorni scorsi, parlando della crisi finanziaria mondiale, lei ha detto che urgono norme, che il mercato non è il Padreterno.

«Sì, credo occorrano norme. Ma le regole dovrebbero scaturire dagli stessi che, operando sul mercato, ne diventino più responsabili. Quanto è accaduto è vergognoso. Sono stato e resto un fedele e convinto assertore del capitalismo privato e liberale americano, che ho praticato nei fatti. Negli ultimissimi anni sono diventato però molto inquieto. Notavo che dalla capitale americana della finanza non venivano più segnali di luce attendibili. Era venuto meno un faro, lo spirito che aveva guidato il sistema finanziario internazionale dopo la crisi del 1929. L’eccesso di deregulation porta vicino all’anarchia. Ci sono stati economisti brillanti ma ingenui, i quali hanno pensato che il mercato fosse così efficace da potersi autoregolare. Invece occorrono le regole. Anche il mercato dei buoi di Dogliani aveva e ha regole. Ricordo quando si portavano le uve a vendere e per le trattative si seguiva un preciso rituale, una regola. Perché mai, allora, la Borsa dovrebbe essere lasciata in balia degli speculatori, per diventare luogo di scambio di vanità e, peggio, di bramosia sfrenata, oltre che palestra di speculazione senza fine? La finanza, come mi ha insegnato a suo tempo Raffaele Mattioli, è un mezzo al servizio dell’economia. Se diventa fine a se stessa può impazzire. Ed è impazzita. Purtroppo, i danni pesano e peseranno sull’economia internazionale e su milioni di persone. Temo ci stiamo addentrando in un lungo tunnel, al quale ci siamo appena affacciati».

Come se ne uscirà?

«La crisi di Wall Street è una patologia non mortale. E dalle malattie si guarisce. Forse molti sopravvivranno, ma indeboliti. Servirà da lezione ai giovani, che capiranno meglio quanto sia poco saggio farsi allettare da troppo facili guadagni».

La crisi finanziaria toccherà anche l’Italia?

«Non risparmierà nessuno, purtroppo. Anche se le conseguenze si potranno arginare. Peraltro, i provvedimenti assunti dal nostro Paese credo siano più meditati ed efficaci di quelli improvvisati negli Stati Uniti. E anche gli altri Stati europei stanno dimostrando rigore, un rigore che non potrà che trasformarsi in sacrifici per tutti».

Che significa per il mondo l’elezione di Obama a presidente degli Stati Uniti?

«Per l’America rappresenta una grande speranza. Oserei dire che è stato eletto nonostante il colore della pelle. Intendo che è stato sostenuto non solo dalle minoranze, ma dai giovani e da grande parte degli americani. La sua elezione può essere letta come un atto di accusa nei confronti del capitalismo traviato, affermatosi negli ultimi anni. Obama ha vinto con grande eloquenza, cultura e abilità, circondandosi di persone molto dotate a livello intellettuale: rappresenta la nuova sfida del mondo. Occorre prestare grande attenzione a quel che ha detto nel suo discorso iniziale, che va preso sul serio fino in fondo. “Siamo unici e nati dalla diversità”, ha ribadito Obama, “siamo gli Stati Uniti e non una collezione di razze”. C’è una forte e apprezzabile carica nazionale in queste parole. Spero che l’America continui ad assolvere al ruolo di leadership internazionale che ha avuto fin qui. Forse non potrà più essere solitaria ed esclusiva, ma condivisa con altri Paesi. Si tratta di passaggi delicati, mai sperimentati, e mi auguro che non ci riservino sorprese sul piano della pace mondiale».

Maria Grazia Olivero

 

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