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Gli errori di papà e il silenzio dei giusti

Razzismo e Cristianesimo non si conciliano neanche a Natale 4

“Un Paese rancoroso e incattivito, che cammina lungo il bordo del burrone”. Così il Censis, circa un anno fa, aveva definito l’Italia. A rincarare la dose, giovedì 1° agosto, ci ha pensato il suo presidente, Giuseppe De Rita, in un’intervista al Corriere della sera: «Siamo nel buio di una lunga notte che consuma i nervi. Senza un governo, senza un’idea, senza una linea politica. Dalla crisi si uscirà per sfinimento».

Lo stesso sfinimento cui si assiste, da tempo, ogni volta che il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, chiude i porti e vieta l’ingresso a navi con profughi e immigrati. Sia quelle delle Ong (italiane e straniere), sia quelle della nostra Marina militare. Una liturgia ormai frustra, che sa soltanto di improvvisazione e propaganda, senza alcun progetto sensato e lungimirante sull’immigrazione. Un inutile braccio di ferro con tutti, per affermare la forza di una politica arrogante e disumana.

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Sei giorni è durato il blocco, nel porto di Augusta, alla Gregoretti, una nave della Guardia costiera italiana, con a bordo centosedici immigrati, cui era stato impedito lo sbarco a terra. Persone, certo, assistite in tutto, ma ammassati in condizioni disagiate e precarie, con un solo bagno a disposizione. Il leader leghista è rimasto imperterrito nella sua ostinazione, mentre si godeva una vacanza al mare, a Milano Marittima. In ben altre condizioni, rispetto agli immigrati. E sotto l’occhio vigile di scorta e polizia, che davano il via libera ai bagnanti per un selfie col ministro, ma intimidivano un giornalista di Repubblica per alcune riprese. Lo minacciavano, in particolare, perché aveva puntato la telecamera su una moto d’acqua della polizia. Questa, guidata da un poliziotto, scorrazzava in mare, per far divertire il figlio sedicenne del vicepremier leghista.

«Un errore da papà», ha detto Salvini, assumendosene la responsabilità e liquidando con sufficienza le polemiche su un “abuso”, che ora però è al vaglio della questura di Ravenna. Ci si attendevano delle “scuse da ministro”, ma il giorno dopo, invece, in una conferenza stampa al Papeete beach di Milano Marittima, è arrivata una scarica di insulti. Con un linguaggio volgare e indecente, che non si addice a un ministro della Repubblica italiana. Ce n’era per tutti, a cominciare dalla “zingaraccia”, cui il vicepremier Salvini ha preannunciato l’arrivo della ruspa per spianarle il campo rom dove vive. Ma l’ira del leader leghista s’è scagliata, soprattutto, su Valerio Lo Muzio, il giornalista di Repubblica. A una sua domanda, Salvini ha risposto con allusioni offensive, al limite della diffamazione: «Vada a fare le foto ai bambini, visto che le piace tanto».

«Anziché insultare i giornalisti», gli ha replicato il segretario generale della Fnsi, Raffaele Lorusso, «il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, farebbe bene a rispondere alle loro domande. È un suo dovere rispondere». E quanto alle intimidazioni, ha aggiunto: «È gravissimo che le forze dell’ordine abbiano preso l’abitudine di chiedere le generalità, quando non ricorrono alle minacce o ai pestaggi, ai giornalisti che fanno il proprio lavoro, documentando fatti e situazioni che l’opinione pubblica ha il diritto di conoscere».

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Risolto il caso Gregoretti, grazie alla disponibilità di cinque Paesi europei e della Chiesa italiana che, a proprie spese, ha ospitato cinquanta immigrati a Rocca di Papa, se n’è aperto un altro con la Ong tedesca Sea-eye. Non c’è pace per il povero ministro dell’Interno.  Mentre i centosedici immigrati sbarcavano dalla Gregoretti, altri quaranta arrivavano sulle coste italiane a bordo della Alan Kurdi. Tra questi “invasori”, alcuni feriti, una donna incinta e due neonati. Il veto del vicepremier leghista non s’è fatto attendere: «I porti restano chiusi. Non siamo il campo profughi d’Europa».

Nel 2019 sono morti nel Mediterraneo circa ottocento immigrati. Ma, senza una risposta umanitaria, la cifra sarà destinata a salire. Nonostante la propaganda sovranista continui a ripetere che i morti sono calati. Nell’ultimo naufragio, sono annegati centocinquanta immigrati. Ormai, soltanto numeri per le statistiche. All’orrore ci siamo assuefatti. Poche le voci a denunciare la tragedia. Tra queste, quella di papa Francesco, che andrebbe supportata maggiormente. Con più coraggio e parresia, specialmente da parte del mondo cattolico. A cominciare dai vescovi italiani. Prendendo, magari, esempio dalle clarisse, le suore di clausura che hanno scritto una lettera di denuncia al presidente Mattarella e al primo ministro Conte.

«Ho appreso con dolore», ha detto papa Francesco all’Angelus, domenica 28 luglio, «la notizia del drammatico naufragio, avvenuto nei giorni scorsi nelle acque del Mediterraneo, in cui hanno perso la vita decine di migranti, tra cui donne e bambini». E ha aggiunto: «Rinnovo un accorato appello affinché la comunità internazionale agisca con prontezza e decisione, per evitare il ripetersi di simili tragedie e garantire la sicurezza e la dignità di tutti».

Chi non tace la propria indignazione di fronte a tanta disumanità è Pax Christi, per voce del suo presidente monsignor Giovanni Ricchiuti. «Mi chiedo», ha detto, «se esista ancora, a sentire le ormai trite e ritrite dichiarazioni dell’imperturbabile ministro dell’Interno, il rispetto per le regole fondamentali del mare? E, ancor più grave, mi chiedo dov’è il rispetto per la vita?». A maggior ragione, in vista dell’approvazione al Senato del “decreto sicurezza bis”, che inasprisce le pene per chi salva vite in mare, sequestrandogli anche le navi. «Voglio ancora sperare, semplicemente, in un sussulto di umanità», ha rincarato monsignor Ricchiuti, appellandosi alla coscienza dei senatori affinché non votino il “decreto sicurezza bis”. Pax Christi ribadisce i suoi fermi no, senza se e senza ma, all’indifferenza e al clima d’odio e di razzismo che va diffondendosi nel Paese.

Sul “decreto sicurezza bis”, però, punta tutto il vicepremier Salvini. Una legge da portare a casa a ogni costo. Anche se non mancano le voci di dissenso nelle stesse forze di maggioranza che sostengono il governo. «Ci si avvia verso uno Stato di polizia», ha dichiarato la senatrice 5 stelle Elena Fattori. «Ci mancano solo le leggi razziali e poi siamo a posto. Siamo alla barbarie». Allo stesso modo, inasprire le pene per reati commessi durante le manifestazioni è soltanto una scusa per impedire ai cittadini di esprimere liberamente il proprio dissenso.

Ma c’è un’Italia che non accetta il clima d’odio e di rancore, che pur rende bene in consensi elettorali a chi lo fomenta. E si oppone alla “caccia al negro” o all’immigrato, su cui si scaricano il malessere e le frustrazioni del Paese. A Foggia, monsignor Vincenzo Pelvi reagisce contro il “veleno del razzismo” che si manifesta nelle aggressioni ai lavoratori immigrati, presi a sassate, minacciati e inseguiti da automobili. «Davanti alla loro integrazione», ha detto, «sta scoppiando una forma di fastidio. Si respira un’aria non solo di paura ma di scontro, rabbia, diffidenza, perfino di odio. E l’odio cerca di inquinare il senso di umanità. Si sta creando un’atmosfera antievangelica: anche se tutti si dicono credenti, non vivono da cristiani».

E ha ribadito, con parole inequivocabili: «Chi risiede tra noi lo dobbiamo trattare come uno di noi. Lo straniero va trattato come uno di famiglia. Nel nostro territorio c’è tanta malavita organizzata, ma mi pare che vogliano distrarci con l’immigrazione per non pensare a tanti altri aspetti tremendi. Bisogna fare più unità e cercare di parlare la stessa lingua, anche come Chiesa. E non aver paura di essere impopolari».

Gli errori di papà e il silenzio  dei giusti

E’ un’Italia generosa, questa, che si riconosce non in chi fomenta l’odio ma in figure come Mario Cerciello Rega, vice brigadiere dei carabinieri, ucciso con undici coltellate da un giovane americano a Roma, nella notte tra il 25 e il 26 luglio scorso, durante un’operazione di controllo. Morto per fare il suo dovere.  «Mario era un ragazzo d’oro», ha detto il parroco di Somma Vesuviana che l’aveva sposato quaranta giorni prima. «Faceva tutto con amore, dal lavoro all’impegno come barelliere a Lourdes o alla consegna di pasti caldi ai senzatetto di Termini».

Un esempio per tutti, ha ricordato monsignor Santo Marcianò, ordinario militare, ai funerali: «Quello che è accaduto è ingiusto. Basta piangere servitori dello Stato, figli di una nazione che sembra aver smarrito quei valori per i quali essi arrivano a immolare la vita!». E, rivolto alle istituzioni, ha ammonito: Se voi, responsabili della cosa pubblica, e tutti noi sapremo imparare, da uomini come Mario, il senso dello Stato e del bene comune, l’Italia risorgerà».

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«La stragrande maggioranza degli italiani», ha dichiarato al Corriere della sera Walter Veltroni, «aspetta la voce di qualcuno che sia in grado di contrapporre all’odio un sentimento diverso. Ma senza esitazioni. Apertura, inclusione, rispetto, diritti, giustizia sociale, cultura. In una sola parola: dialogo». E’ davvero difficile tutto ciò? Diceva Martin Luther King: «Non temo le parole dei violenti, ma il silenzio dei giusti». In Italia, a fronte di tanto sfascio e scempio istituzionale, troppi sono ancora silenti. Dagli uomini di cultura agli uomini di Chiesa.

Nel frattempo, tassello dopo tassello, c’è chi smonta la democrazia, imbavaglia il dissenso e restringe il perimetro delle libertà. Ci si accanisce sui migranti che sbarcano sulle nostre coste, ma s’ignora l’emigrazione dal Sud d’Italia. In quindici anni, sono andati via più di due milioni di persone, per lo più giovani, alla ricerca di lavoro e speranza.  Un giorno, forse, ci vergogneremo d’aver assistito, impotenti e ignavi, a tanta barbarie e a una politica senz’anima, valori e ideali. Solo l’arroganza del potere.

Antonio Sciortino già direttore di Famiglia Cristiana e attualmente direttore di Vita Pastorale

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