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Franco Vaccaneo: una vita legata a Cesare Pavese

Franco Vaccaneo: una vita legata a Cesare Pavese
Franco Vaccaneo

INTERVISTA Franco Vaccaneo, fresco pensionato, ci accoglie in un pomeriggio soleggiato nella sua tenuta di campagna. La sua è la storia di una ”anticarriera” vissuta sempre con il coltello tra i denti. Nato da una famiglia di agricoltori, dopo l’università Franco ha scelto di diventare un intellettuale e un mediatore culturale ricoprendo inizialmente il ruolo di bibliotecario a Santo Stefano Belbo. Grazie a lui nasceranno prima il Centro studi, poi la fondazione Cesare Pavese e la Scarampi foundation. Ora Franco è tornato nella casa dei genitori dove tiene il suo orto, in quella «terra che aspetta», come avrebbe detto l’amato Cesare Pavese, al quale ha dedicato studio e sforzi per anni.

Pensa di aver dato più lei a Pavese con il suo lavoro o Pavese a lei?
«Sicuramente lui mi ha dato molto di più. Io mi ero proposto la missione di costruire il monumento che Pavese meritava, che non vuol certo dire una statua. Innanzitutto ho cercato di creare una biblioteca nel suo paese natale: ho voluto uno spazio popolare, cioè aperto a chi non aveva libri a casa. Il Centro studi e la fondazione Pavese sono nati invece con una finalità complementare, ovvero mettere in contatto chi entra nella biblioteca con la grande cultura internazionale. Pavese non dev’essere una gloria locale, ma un’ opportunità intellettuale. La cultura per me è sempre stata militante, non va in ferie».

Come è nata la sua avventura da bibliotecario?
«La Soprintendenza ai beni librari, che ormai non esiste più, aveva proposto al sindaco di Santo Stefano di creare una biblioteca. Nel 1975 nasce il primo nucleo, dopo l’abbattimento del Municipio, in uno stanzone della parte rimanente dell’edificio. L’anno seguente viene indetto il concorso pubblico in cui arrivai secondo. Nel maggio del ’77, dopo essere stato richiamato, accettai l’incarico, nonostante grossi dubbi perché c’era tutto da fare e avevo altre possibilità e interessi, come il cinema e il giornalismo. Il primo giorno mi trovai in uno stanzone di quell’edificio malsano con i topi. Confesso che ero un po’ disperato».

E l’incontro con Pavese?
«Quando ho iniziato io, Pavese era un nome impronunciabile per la sua fama di comunista e di suicida. Ora, invece, si pronuncia un po’ troppo. Nell’autunno 1977 si inaugurava alla biblioteca nazionale di Torino una mostra bibliografica su Cesare Pavese. Era la prima volta dopo la sua morte. Qui ha avuto inizio la mia “anticarriera”, quando mi venne in mente che si sarebbe potuta portare anche a Santo Stefano Belbo. Ne parlai con il curatore e decidemmo di tentare. Il problema era, però, trovare delle bacheche per presentare i libri, parlare con la famiglia di Pavese (la sorella Maria mi prese per fortuna in simpatia) e fare una lunga trafila burocratica con il Ministero. La mostra si fece e fu un successo di visitatori. Nel 1980, quando avevo solo 25 anni, portai la stessa mostra a Bucarest. C’era la guerra fredda e non era per nulla facile andare nell’Est Europa. Inoltre, Maria Pavese era molto preoccupata per i suoi manoscritti che sarebbero stati trasportati in Romania e mi chiese di restare personalmente vicino ai libri fino alla fine della mostra. Alla fine disse di sì e fu un altro grande successo».

Quali sono i suoi progetti futuri?
«Sono tornato alla casa e alla terra dove son nato. L’ho abbandonata per diversi anni, ma ora sono tornato con uno spirito diverso. Ora sono nel mio angolo di Langa, affermando il mio ideale dell’importanza dei paesaggi non rovinati dal deserto della monocultura della vite».

Ha qualche rimpianto?
«Professionalmente, più che un rimpianto ho un’occasione mancata: la sorella di Pavese voleva donare a qualche istituzione i manoscritti del fratello affinché se ne prendesse cura. Io all’epoca ero giovane e solo, senza una sede definitiva, e lasciai quindi che fossero dati all’Università di Torino. Riuscii però a farmi regalare da Maria il manoscritto dei Dialoghi con Leucò, che Pavese teneva sul comodino al momento della morte, tuttora conservato in Fondazione.

Quel libro ha avuto un’importanza centrale durante l’alluvione del 1994.
«Feci un appello che andò in onda su tutti i telegiornali nazionali mostrando quel manoscritto. Sono stati anni difficili, professionalmente e personalmente, ma grazie a quell’episodio ho portato a casa diversi soldi che hanno permesso la ricostruzione del Centro studi alluvionato. Molti mi hanno attaccato pensando che volessi solo notorietà o prestigio, io invece non avevo alcun secondo fine».

Lorenzo Germano

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