La spregiudicatezza va di moda in politica. Tanto di moda. Assieme a un pizzico di cinismo. Se ne servono quasi tutti. Ma a eccellere, in particolare, sono due politici di “razza”. Con ottimi risultati, a quanto pare. Per lo meno, per qualche periodo. Entrambi di nome fanno Matteo. Il primo, Matteo Renzi, alle Europee del 2016 portò il Pd a superare la vetta del 40 per cento. Miglior risultato mai raggiunto dal partito. L’altro, Matteo Salvini, ha “miracolato” una Lega ridotta al lumicino, facendola diventare il primo partito italiano, con più del 30 per cento di consensi.
Ma la ruota della politica gira velocemente. E anche i consensi vanno e vengono. Soprattutto oggi, con un elettorato fluido e trasversale. Oltre che smarrito e disilluso. Renzi, dopo aver occupato i più alti ruoli istituzionali, da leader del Pd a presidente del Consiglio, è rientrato nei ranghi di semplice senatore. Ridimensionato da una sconfitta dopo l’altra alle regionali. E, soprattutto, dalla batosta del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Con i “suoi” che gli hanno remato contro, festeggiando alla sconfitta. Ma da tenace fiorentino, non s’è mai rassegnato alla “panchina”. Non fa per lui. Anche se, per diverso tempo, la sua immagine catalizzava antipatie nel Paese. A torto o a ragione.
Nei giorni scorsi, Renzi è tornato di nuovo protagonista. A modo suo, naturalmente. Scompigliando la scena politica, con mosse imprevedibili. Oltre che discutibili. Prima ha facilitato l’accordo del Pd con i grillini per il “Conte bis”, prendendo in contropiede uno “sprovveduto” Salvini. Ma anche facendo cambiare idea al segretario Pd, Nicola Zingaretti, del tutto contrario all’intesa. E poi, a Governo rossogiallo ancora fresco di giuramento, ha annunciato la scissione dal Pd. A freddo. Senza ragionevoli motivi. Garantendo, tuttavia, fedeltà e sostegno al “Conte bis”. Per lo meno, a parole. Nei fatti, però, è già segno di instabilità. O, peggio, possibile futura arma di ricatto. L’Italia viva, questo il nome della formazione renziana, è il nuovo convitato di governo. E i suoi quaranta parlamentari (venticinque deputati e quindici senatori, per ora), hanno in mano le chiavi del “Conte bis”.
Decisione quanto mai inopportuna. In un’Italia ancora scossa dalla tempesta populista salviniana. Scelta incomprensibile, nei tempi e nei modi. Il Governo, nato a fatica tra due forze che s’erano opposte e combattute, di tutto aveva bisogno, non certo di un’incrinatura. A nulla sono valsi gli appelli a non spaccare il partito, indebolendolo. E a restare uniti nel Pd. A vuoto anche le mozioni di alcuni suoi fedelissimi. Tra questi il sindaco di Firenze, Dario Nardella, e quello di Bergamo, Giorgio Gori. Una mossa azzardata, quella di Renzi. Una scommessa dagli esiti imprevedibili. Nella logica masochistica del “tafazzismo”. A conferma della volontà di farsi del male da sé stessi. Com’è nella tradizione della sinistra italiana. Purtroppo, finora, non si ricordano scissioni vincenti. Di solito, portano male a chi le fa. E finiscono nell’insignificanza. Nel caso specifico, sono anche un bel regalo a Salvini. Un’arma in più per uscire dall’angolo in cui s’è cacciato.
Quali le reali intenzioni dello strappo di Renzi? Le carte sono tutte da scoprire. Le sue rassicurazioni al premier Conte evocano il sinistro “Stai sereno!” a Enrico Letta, prima che lo disarcionasse per sostituirlo da premier. All’accusa d’aver teso un agguato al Governo appena nato, così risponde Renzi, in un’intervista a la Repubblica: «Sarebbe stato un agguato se lo avessi fatto tra sei mesi. Farlo il giorno del giuramento significa partire con chiarezza, per stabilizzarlo. Mi avrebbe fatto comodo godere della rendita di queste ultime settimane per avere un potere di interdizione nel Pd». E sulle ragioni della scelta aggiunge: «Bisogna dire, non interdire. Fare, non bloccare. Proporre, non contrattare. E io credo che ci sia uno spazio per una cosa nuova. Che non è di centro o di sinistra, ma che occupa lo spazio meno utilizzato della politica italiana: lo spazio del futuro».
Futuro politico che, a sinistra, molti vedono incerto. Soprattutto dopo gli sforzi di Zingaretti per tenere unito il partito. E affrontare l’inedita prova di governo con i 5stelle. «Non c’è uno spazio per una separazione a freddo», ha detto l’ex premier Enrico Letta, «o per una separazione consensuale. Quando ci sono delle scissioni, sono sempre rotture drammatiche». Durissima, invece, la presa di posizione del neo ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini: «Nel 1921-1922 la litigiosità e le divisioni dentro i partiti li resero deboli, fino a far trionfare Mussolini. La storia dovrebbe insegnare».
Il riferimento, nemmeno tanto velato, è a Matteo Salvini, ex vicepremier ed ex ministro dell’Interno. Una parabola, quella del leader leghista, altrettanto incomprensibile. Nei tempi e nei modi. Al pari di Matteo Renzi. Dopo aver monopolizzato la scena politica per quattordici mesi, raddoppiando i consensi e assoggettando a sé i partner di governo, Luigi Di Maio e il premier Conte, d’improvviso s’è politicamente suicidato. S’è scavato la fossa con le proprie mani. Il successo, le folle osannanti e le migliaia di selfie devono avergli dato alla testa. E fatto credere d’avere l’Italia in mano. La bulimia di potere ha poi fatto il resto. In pieno agosto, al Papeete beach di Milano Marittima, tra un mojito e l’altro, con cubiste mozzafiato al ritmo di Fratelli d’Italia, un Salvini in costume ha staccato la spina al Governo.
Un calcolo azzardato, da politico in stato confusionale. O in delirio d’onnipotenza. Ignaro della Costituzione italiana e delle sue regole. Un autentico autogol. Salvini pensava a elezioni immediate e all’incasso dei “pieni poteri”, richiesti nei comizi. Per governare con una maggioranza assoluta, senza più l’intralcio dei “pesi e contrappesi” della democrazia. Un passo falso, che ha coalizzato tutti contro il “pericolo Salvini”. A nulla sono valsi i suoi imbarazzanti tentativi di un passo indietro. E l’offerta della presidenza del Consiglio al grillino Di Maio, prima sfiduciato e additato quale causa della rottura. Tutto pur di restare al governo. E alla guida del ministero dell’Interno, che gli garantiva persone e mezzi per la sua vorticosa propaganda politica. Da un capo all’altro d’Italia. Troppo tardi per rimediare. E troppo inaffidabile, lui, perché Di Maio ricucisse. Già isolato in Europa per un esasperato sovranismo, il leader leghista s’è ritrovato fuori da ogni gioco, in Italia e all’estero. Senza più una strategia vincente. E con un consistente pacchetto di consensi inutilizzabili. Da congelare. Ora è come un pugile suonato. Un disco rotto, che ripete la solita musica: “Elezioni”, “Torneremo presto”… Ma, a tuttora, non un solo cenno di autocritica.
Dal governo all’opposizione. Nell’arco di alcuni giorni d’agosto. Qualcuno dei suoi, prima o poi, dovrà chiedergli conto della disfatta politica. Non basta a edulcorare la “pillola amara” il raduno di Pontida. E il tripudio di folla e bandiere. In quel prato c’era anche tanto nervosismo, difficile da simulare. E un clima rabbioso, preoccupante. Dall’offesa al capo dello Stato (“Mattarella mi fa schifo”) di un parlamentare leghista, agli insulti antisemiti a Gad Lerner, chiamato con sprezzo “ebreo”, all’assalto a un cronista di la Repubblica. E nessuno dei responsabili leghisti, da Salvini in giù, a prendere le distanze, scusandosi senza “se” e senza “ma”.
Allucinante, poi, il “botto” finale. Con la strumentalizzazione di bambini, esibiti sul palco di Pontida, per attaccare gli avversari politici. Eppure, qualche mese fa, Salvini dichiarava: «Non parlo di figli, minori che non fanno parte della politica. Mi vergogno a nome di chi coinvolge i bambini nella polemica politica. Attaccate me, ma lasciate perdere i figli e i bambini». La coerenza, evidentemente, non è virtù. Soprattutto in politica.
Il Paese è stanco di lotte, odio e divisioni. Vuole cambiare pagina. E spera di farlo col Governo rossogiallo, in discontinuità con quello precedente. Mesi e mesi di ininterrotta propaganda contro rom e immigrati hanno incattivito gli animi. E sdoganato i peggiori sentimenti contro il “diverso”. Un altro Matteo, monsignor Zuppi, prossimo cardinale al Concistoro del 5 ottobre, mette in guardia dal razzismo. «Purtroppo ci siamo abituati all’intolleranza», ha detto al recente raduno delle religioni a Madrid, «come ci si abitua a un cattivo odore. Non ci scandalizziamo più». Complice un linguaggio sempre più aggressivo. «L’uomo di fede non può essere razzista», ha aggiunto. «Ogni religione ha al centro il principio che tutti gli uomini sono figli di quel Dio che ci ha voluto diversi gli uni dagli altri. Una diversità che il razzismo vuol cancellare».
E l’imprenditore del cachemire, Brunello Cucinelli, che molti vedrebbero candidato alle regionali in Umbria, in un’intervista al Corriere della sera, ha detto: «Nel nostro Paese avremmo bisogno, per prima cosa, che tornasse la gentilezza, il garbo, lo stile, il rispetto dell’avversario e anche una certa spiritualità». Non certo quella di chi bacia il crocifisso e “crocifigge” poi altri esseri umani, chiudendo i porti a profughi e immigrati. Non c’è nulla di cristiano in tutto ciò. Nonostante le benedizioni di qualche prete o vescovo con simpatie sovraniste.
Antonio Sciortino
già direttore di Famiglia Cristiana e attualmente direttore di Vita Pastorale