Francesco Morra, addio all’ultimo figlio del creatore della Fiera del tartufo

ALBA Avrebbe compiuto 100 anni il prossimo 15 febbraio, Francesco Morra, morto ad Alba la settimana scorsa. La notizia è stata data, secondo sue disposizioni, a funerali avvenuti. Francesco (per gli amici “Ceschino”) era il secondo dei quattro figli di Giacomo Morra, l’ultimo in vita; l’ultimo a tenere gli albesi direttamente collegati all’uomo cui primariamente si deve l’invenzione della Fiera del tartufo, che in sostanza ha significato inventare, a cavallo degli anni Venti e Trenta, buona parte dell’immagine della città, facendola affacciare sulle mappe di un nascente turismo enogastronomico.

Giacomo Morra è una figura che alle generazioni più giovani è sempre parsa più leggendaria che reale: morto nel 1963 (poco dopo Beppe Fenoglio, poco prima di Pinot Gallizio) è stato artefice e primo personaggio di un racconto – quello appunto della trifola – che mescolava sapientemente e gustosamente folclore e mistero, e che oggi, pure in tempi disincantati e instabili, resiste con l’autonomia del mito. Intorno al “diamante grigio”, si sa, Morra ha costruito un commercio e un teatro straordinari, con un impiego accorto della pubblicità e della fotografia, trasformando un fungo bitorzoluto in una pietra lunare e “assoldando” testimonial come Marylin Monroe, Rita Hayworth e Alfred Hitchcock senza passare per i loro agenti. Al suo fianco – da che nel 1928, dopo una parentesi torinese, rientrò in Alba per rilanciare il Grande albergo Savona – ebbe storici e fidati collaboratori, ma su tutti i famigliari: la moglie Teresa, la primogenita Giuseppina e soprattutto i tre maschi, Francesco, Giorgio e Mario. Che gli furono appassionati, divertiti sodali e gli succedettero nell’impresa.

Come aveva testimoniato una mostra fotografica, giusto vent’anni fa, fatta di bandiere e gonfaloni bianchi e blu che avevano ricoperto, facciate e portici, l’allora piazza Savona. Promossa da Pia Cavallo Bressano (scomparsa recentemente anche lei: e fa piacere ricordarla qui), pensata e curata da Pietro Giovannini con Arturo Buccolo, “Giacomo Morra, il Re del tartufo” era una grande galleria fotografica, l’album della famiglia Morra sfogliato di fronte ai passanti, ignari o meno, comunque incantati. Ed era anche una storia possibile della città di Alba nel Novecento, che faceva capo non ai palazzi delle autorità pubbliche, ma all’isolato che, tra quella stessa piazza e via Roma, contiene appunto l’hotel Savona, centrale operativa del regno di Giacomo Morra.

Francesco Morra, addio all’ultimo  figlio del creatore della Fiera del tartufo
Francesco Morra nella famosa foto che lo ritrae con il tartufo destinato a Truman.

In una delle fotografie più belle di quell’esposizione, proprio Francesco Morra era in posa, con un sorriso placidamente orgoglioso, di fronte a uno specchio: la sua smilza figura, in giacca e cravatta, si duplicava, di profilo, mentre reggeva su una mano, in primo piano, un tartufo del peso di due chili e mezzo, grande all’incirca come una palla da basket (e appannaggio del presidente degli Stati Uniti Harry Truman). Da bambini, senza saperne nulla, per lo sdoppiamento e quel contrasto tra l’abito scuro e il tartufo come estratto da un cilindro, era l’immagine di un famoso illusionista. Ma quella era la parte spettacolare; dietro c’erano, già allora, preoccupazioni e attenzioni nei confronti di un tesoro naturale messo a repentaglio dall’insensatezza e dall’incuria. Proprio Francesco Morra aveva firmato, a metà degli anni Cinquanta, un articolo sulla produzione e il commercio dei tartufi che si preoccupava di rimboschimenti mirati, di una ricerca regolamentata, di cavatori inesperti e cercatori «avidi di guadagno» che «raccogliendo i tartufi nel mese di luglio (il 16, 23, 30 luglio 1955 vi erano sul mercato 7, 10, 12 chili di tartufi in vendita) commettono un errore, perché i tartufi in questo periodo oltre a marcire sono piccoli, acerbi e privi di qualsiasi caratteristica organolettica così da non poter essere paragonati neppure a quelli di peggior qualità della buona stagione… soltanto se sapremo difenderci dal pericolo di una scarsa produzione e di una inesatta classificazione e dalla sofisticazione delle qualità, potremo assicurare alla nostra produzione il mercato che essa merita in campo nazionale». Si auspicava, insomma, a fianco di una politica di tutela del «nome e della produzione di Alba», un’educazione. Segno che dietro al mito giocato con le star del cinema c’era, consapevole, una cultura.

Edoardo Borra

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