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Il genocidio silenzioso: le api muoiono di fame

AMBIENTE Perché, a partire da un dettaglio, possiamo ricavare informazioni sul contesto? Ad esempio, studiando le api, è possibile conoscere le evoluzioni del sistema umano e i pericoli che sta correndo. Partiamo da una notizia. A inizio ottobre la Regione Piemonte ha varato un provvedimento per la concessione di crediti agevolati agli apicoltori. Le domande si possono presentare fino al 31 ottobre, per ottenere da 5mila a 80mila euro. Secondo gli uffici regionali la mancata produzione di miele, quest’anno, ha generato un danno quantificabile in ben 16 milioni di euro. Il Piemonte è infatti la prima regione italiana produttrice, con oltre 5mila tonnellate di miele nel 2018, seguita da Toscana con 3mila e da Emilia-Romagna con duemila (si vedano anche gli altri articoli di queste pagine, ndr). Ha spiegato l’assessore regionale all’agricoltura Marco Protopapa: «La riduzione della produzione nel 2019 è dovuta all’andamento climatico della scorsa primavera, con forti sbalzi di temperatura. Alla colonnina anomala si sono poi aggiunte lunghe fasi di piovosità e siccità, che hanno aggravato una situazione già critica».

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In pratica, a causa del caldo prolungato oppure degli sbalzi meteorologici le api subiscono destabilizzazioni e disadattamenti. Muoiono, cioè, di fame, a meno che non vengano nutrite con altre sostanze dall’uomo. Senza considerare le migrazioni di insetti esotici, che dall’Asia vengono attratti da climi europei sempre più miti: la vespa velutina, ad esempio, è un calabrone che si nutre proprio di api e abita la provincia di Cuneo. «Se l’ape scomparisse dalla faccia della terra, all’uomo non resterebbero che quattro anni di vita»: la frase, attribuita a Einstein, contiene un avvertimento da non sottovalutare, perché questi insetti garantiscono l’impollinazione e quindi l’intero ciclo naturale di vita e le sue trasformazioni. Forse una premonizione, l’assunto sottende un’indiscutibile verità: la natura invia segnali di protesta alle logiche umane basate sulla sola crescita e produttività, concetti incompatibili con i ritmi lenti e integrati degli ecosistemi.

16 milioni di danni nel solo Piemonte

Il senatore Taricco eletto vicepresidente  della Commissione per la semplificazioneMino Taricco è un senatore del Partito democratico cuneese. A inizio ottobre ha presentato un’interrogazione al ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali Teresa Bellanova, sollecitando l’attivazione di una commissione e misure straordinarie di sostegno all’apicoltura, a fronte di un’annata (il 2019) considerata la più problematica di sempre. Ha spiegato Taricco: «Le aziende apistiche, oltre alla mortalità di alveari per fame e alla eccessiva sciamatura, sopportano il peso economico dell’acquisto di sostanze zuccherine atte a sopperire la mancanza del “bottino naturale”, il nutrimento che le api dovrebbero trovare nell’ambiente, fatto di nettare – ricco di sostanze nutritive che si trasferiscono al miele –, polline, lieviti, enzimi e molti altri elementi utili al sostentamento della covata e al corretto sviluppo del sistema immunitario della colonia».

Taricco prosegue, rilevando come il Piemonte abbia nel tempo costruito una parte della propria produttività sul settore apicolo: «Nell’ultimo censimento sono stati contati 5.769 apicoltori, di cui 3.851 amatoriali, che producono per autoconsumo (67%) e 1.918 che operano per il commercio (33%): di questi ultimi ben 457, con più di 100 alveari, hanno sviluppato un’importante attività economica, detenendo il 61% del totale degli alveari (129.586)».

Il senatore conclude con la stima dei danni economici: «Per il Piemonte si parla di oltre 16 milioni di euro, mentre nell’insieme delle regioni italiane si arriva a oltre 70 milioni». Tanto. Eppure, in un tempo di surriscaldamento globale ed emergenza ecologica, l’economia non può più essere il solo parametro utilizzato per la stima di un danno. Il problema principale riguarda infatti la protezione dell’ecosistema, la biodiversità e la sussistenza stessa della vita di alcune specie.

«Ho perso un intero apiario per i trattamenti»

Giuseppe Brezzo è un noto apicoltore di Monteu Roero. L’azienda è nata nel dopoguerra per iniziativa del padre Gervasio, che invece di dedicarsi all’allevamento di bovini scelse di entrare in un settore inesplorato. Il genocidio silenzioso: le api muoiono di fame 2

Come funziona il vostro lavoro, Brezzo?

«Il lavoro si differenzia a seconda delle stagioni. In primavera si creano le basi per l’intero anno: controlliamo la salute delle famiglie di api, interveniamo per pareggiare la forza degli alveari, spostando telaini dalle famiglie più forti a quelle più deboli. Con l’inizio della raccolta si muovono le api sulle fioriture e si controlla l’andamento, aggiungendo se necessario i melari. Si cerca di prevenire la sciamatura, eliminando le celle reali. In estate, si aggiunge il lavoro del cambio delle regine, che hanno il compito di dare continuità alla vita dell’alveare. In autunno si controlla, invece, che le scorte di miele siano sufficienti alle famiglie per affrontare l’inverno (operazione ripetuta a gennaio-febbraio). In passato questi lavori rappresentavano la routine e non davano grossi problemi. Oggi invece gli intralci sono aumentati a dismisura: non perché siano cambiate le api, ma perché si è rotto quello che prima era un vero equilibrio naturale».

Che cosa significa tutto questo?

«L’ape è importante: prima ancora che per la produzione di miele, per l’impollinazione che assicura biodiversità vegetale e agronomica. Questo compito è svolto anche da altri apoidei, ma essendo le api in numero infinitamente maggiore, possiamo dire che il loro ruolo sia determinante. Sono le prime sentinelle della natura. Noi apicoltori da anni ci siamo accorti che molti tratti sono cambiati nel loro comportamento. Le api svolgono un compito che non può essere eseguito né dall’uomo né dalle macchine, ma che è cruciale per l’agricoltura: l’impollinazione, ovvero la produzione di frutti e la continuazione del ciclo vegetale di tutte le diverse piante».

Il diserbante e i trattamenti agricoli intensivi possono essere tra i responsabili della moria di api?

«Il glifosate non dà una moria massiccia e immediata, ma determina una lenta e continua caduta delle api lontano dall’alveare. Troviamo famiglie –che fino a poche settimane prima erano floride e in salute – spopolate e indebolite proprio nel momento in cui dovrebbero essere pronte per i primi raccolti (coincidenti col periodo dei primi diserbi). Altri trattamenti agricoli (flavescenza, cimice) producono invece una moria massiccia davanti agli alveari. Questo è capitato a me pochi anni fa, quando ho perso un intero apiario in seguito a un trattamento sulla flavescenza non annunciato. L’unico sistema per difendersi è spostare gli apiari in luoghi sani e incontaminati, che però è sempre più difficile trovare, se non in alta montagna».

Langa e Roero: monocolture da riconvertire al biologico

Il genocidio silenzioso: le api muoiono di fame 3Rodolfo Floreano è il presidente dell’associazione Agripiemonte miele.

Qual è il compito della sua associazione, Floreano?

«Svolgiamo da oltre vent’anni un servizio di assistenza tecnica a favore degli apicoltori piemontesi. L’obiettivo è salvaguardare l’attività produttiva attraverso la valorizzazione, la promozione e la tutela del miele. Inoltre, l’associazione svolge attività di formazione (cofinanziate dalla Regione, dall’Ue e dallo Stato), esegue prove di campo e intrattiene rapporti con enti pubblici di vario livello».

In che modo le api subiscono l’azione umana nell’area di Langa e Roero?

«Essendo il territorio caratterizzato non solo dalla monocoltura della vite, ma ora anche da quella delle nocciole, risultano nettamente contratte le superfici boschive e le aree rurali marginali: di conseguenza, le api hanno meno spazio e disponibilità di fonti nettarifere. Tutto ciò impatta fortemente sulle popolazioni apicole, ma anche sugli altri insetti impollinatori, riducendone notevolmente il numero. I trattamenti contro la flavescenza dorata delle viti o contro la cimice della nocciola, inoltre, non favoriscono certo un ambiente idoneo e adatto per l’allevamento».

Quindi, quali scelte rimangono all’apicoltore?

«Deve scegliere se rischiare di rimanere a contatto delle monocolture o lasciare queste zone per cercare luoghi meno coltivati, sebbene una simile migrazione produca oggi un sovraffollamento di alveari in areali definiti incontaminati».

Quali sono le soluzioni al problema?

«Ad esempio, sfalciare i prati che si trovano al di sotto delle monocolture prima di eseguire i trattamenti e lavorare i terreni, pratica ormai poco diffusa poiché ritenuta antieconomica e dispendiosa. In alternativa, si potrebbe proporre di effettuare una trinciatura dell’erba e quindi dei fiori, così da evitare di diserbare alla presenza di pistilli su cui le api potrebbero bottinare, contaminandosi con le sostanze inquinanti. Sarebbe auspicabile quindi per gli apicoltori che le colture a vite e a nocciolo fossero il più possibile convertite al metodo biologico, con grossi vantaggi per tutto il settore apistico. Tengo a sottolineare che le api contribuiscono a impollinare il nocciolo, visitando assiduamente gli amenti maschili, che rappresentano una fonte pollinifera importante. Perciò ho scritto una lettera al presidente della Regione Alberto Cirio, chiedendo il suo intervento presso lo Stato e l’Unione europea: l’obiettivo è avanzare proposte che possano salvare le aziende apistiche».

95% di raccolto in meno per acacia e millefiori

Spiega così il presidente di Agripiemonte miele, Rodolfo Floreano: «Il tracollo della produzione ha avuto inizio nel 2011 e negli anni a seguire le medie per alveare hanno registrato un calo costante fino al 2014, quando si è avuto un netto crollo. Il 2019 è in assoluto l’anno peggiore.

Le pessime condizioni climatiche, caratterizzate da temperature stagionali al di sopra della media in primavera, a cui sono seguite precipitazioni e temperature sotto la media, hanno portato a raccolti quasi nulli. Le famiglie di api erano “alla fame”. Gli apicoltori, per garantire la sopravvivenza degli alveari sono  intervenuti con alimentazione di soccorso, provocando un sensibile aggravio dei costi. La situazione di assoluta emergenza si è protratta anche nei mesi estivi, a causa del perdurare di ondate di caldo africano, che hanno reso impossibili i raccolti in pianura, collina e montagna. Le stime della mancata produzione si aggirano ad almeno il 95% sui raccolti dell’acacia, del millefiori e della melata, che sono le produzioni più importanti per un’azienda apistica. Per quanto riguarda le produzioni nelle zone pedemontane e montane si può quantificare una mancata produzione intorno al 70 per cento».

Matteo Viberti

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