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Incontro sul messaggio di papa Francesco per la giornata delle comunicazioni sociali

Incontro sul messaggio di Papa Francesco in occasione della prossima giornata mondiale per le comunicazioni sociali

ALBA  «Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria (Es 10,2). La vita si fa storia» è il tema della 54a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebrerà il 24 maggio 2020, e il cui messaggio il Papa è solito anticipare nella memoria di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti. Per riflettere sul messaggio del Papa, giornalisti, operatori della comunicazione e quanti sono interessati al tema si sono ritrovati ieri, martedì 28 gennaio per ascoltare le parole del Vescovo di Alba, monsignor Marco Burnetti e Antonio Sciortino già direttore di Famiglia Cristiana e attualmente direttore di Vita Pastorale. 

Il messaggio di papa Francesco è riportato qui.

54° Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, la relazione di Sciortino

Come ogni anno, il Messaggio del Papa sulla Giornata mondiale delle comunicazioni sociali ci offre ottimi spunti di riflessione per la nostra professione di giornalisti, soprattutto per quanto riguarda l’etica della comunicazione e la nostra deontologia di comunicatori. Il tema del Messaggio di quest’anno è: “Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria” (Esodo 10,2). La vita si fa storia.

Papa Francesco ci invita a riscoprire l’essenza del giornalismo, del nostro quotidiano informare, comunicare e narrare. E ci richiama ad avere sempre rispetto della verità e, soprattutto, della dignità della persona umana, chiunque essa sia, non importa se un povero o un potente. Di solito noi facciamo le pulci alle persone poco note, ma siamo molto prudenti se dobbiamo farle ai potenti di turno.

Amore e ricerca per la verità, assieme al rispetto della dignità umana, sono i principali antidoti al fenomeno sempre più diffuso delle fake news. Oggi, soprattutto per ragioni ideologiche, la verità viene sovente calpestata, manipolata, dimezzata. Pur in presenza di ingenti mezzi tecnologici, il giornalismo ha bisogno ancora d’essere fatto “con i piedi”. Al contrario, si fa sempre più fatica a mettersi in cammino, consumando suole di scarpe, per andare a verificare i fatti e poi trovare le parole giuste per raccontare. Trovare le parole giuste vuol dire, in qualche modo, lasciarsi coinvolgere emotivamente, non limitarsi a una narrazione fredda, asettica.

Oggi, nel mondo del giornalismo, prevale il criterio della “verosimiglianza” non della verità. Se una notizia può essere verosimile, la si scrive senza bisogno di verifiche. Così, spesso, su giornali e sulle reti circolano autentiche “bufale” – come si dice in gergo giornalistico – di notizie inventate, sulle quali si costruiscono articoli su articoli, dibattiti e confronti sui talk show televisivi, caterve di insulti e volgarità sui social.

L’altro criterio in voga nel mondo del giornalismo, che andrebbe combattuto, è che il giornalista deve essere cinico, senza umanità, se vuole far presa e raggiungere uno scoop. Lo scoop giornalistico, in qualche caso, vuol dire dare la notizia per primi  in assoluto, come è avvenuto ad esempio per la giornalista dell’Ansa che diede per prima la notizia delle dimissioni di papa Benedetto XVI nel febbraio 2013; in altri casi, invece, lo scoop giornalistico si riduce a sbattere il “mostro” in prima pagina, esponendo a pubblico ludibrio una persona, salvo poi scoprire che è innocente. E nessuno potrà restituirgli la dignità violata.

Non c’è scoop giornalistico che possa valere il prezzo della dignità di una persona.  Non si fanno, nel modo più assoluto, scoop sulla pelle degli esseri umani. E ciò vale sia per i testi e, soprattutto, per le immagini che privilegiano il sensazionalismo, l’orrido, senza alcuna pietà – ad esempio – per vittime di guerra o di calamità naturali.

Nell’informazione si punta molto sul “negativo”, si lancia e rilancia la cronaca nera, di cui si fa tanta speculazione per vendere qualche copia in più. Ma qui l’informazione perde la sua funzione di narrazione e si trasforma in spettacolo, senza alcuna pietà per le vittime; suscita, invece, interesse sugli assassini o i presunti colpevoli, trasformandoli in protagonisti, in “eroi” sia pure in negativo. Tutto si trasforma in una sorta di set televisivo, quasi fossimo al Grande Fratello o a spettacoli simili. Al punto da generare nei lettori quel fenomeno che possiamo definire il “turismo dell’orrore”, cioè di quelle comitive di persone e famiglie che, a fine settimana, si recano sul luogo del delitto o della catastrofe per un selfie.

È successo – per fare qualche esempio – con il delitto di Cogne, con la nave Concordia spiaggiata di fronte all’isola del Giglio, con l’uccisione della giovane Sara Scazzi ad Avetrana… tutti episodi di cronaca di cui s’è parlato per mese e anni. Ma un giornalismo che punta esclusivamente a essere sensazionalista e spettacolare non è vero giornalismo. Non aiuta a comprendere la realtà, non spinge a riflettere, ma punta soltanto a solleticare la morbosità dei lettori. È un giornalismo che non aiuta a crescere. E’ una parodia della vera informazione.

C’è un altro luogo comune che andrebbe sfatato nel mondo dell’informazione, che si rifà al famoso detto: “Fa più notizia un albero che cade che mille che crescono”. Ma noi non siamo chiamati a parlare soltanto dell’albero che cade; dobbiamo, invece, scoprire e far comprendere quanto sia bello raccontare la foresta che cresce, nella sua varietà e ricchezza. Non è vero che le cosiddette “buone notizie” non tirano e non fanno vendere. Un editore laico, da qualche anno, ne ha fatto addirittura una rivista, allegata a un quotidiano nazionale, che ha titolato, appunto: Le buone notizie”.  Dovremmo, semmai, impegnarci di più a scoprire e raccontare notizie positive ed esemplari, consapevoli che il bene è più contagioso del male, basta saperlo raccontare. Dovremmo, quindi, divulgare notizie che ci inondano di speranza e diano voce al bene, che esiste ed è più esteso di quanto possiamo immaginare

È quanto ci chiede anche papa Francesco nel Messaggio di quest’anno: “Per non smarrirci abbiamo bisogno di respirare la verità delle storie buone: storie che edifichino, non che distruggano; storie che aiutino a ritrovare le radici e la forza per andare avanti insieme”. E ancora: “Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita. Una narrazione che sappia guardare il mondo e gli eventi con tenerezza; che racconti il nostro essere parte di un tessuto vivo; che riveli l’intreccio dei fili coi quali siamo collegati gli uni gli altri”.

Sui “telai della comunicazione” – come dice il Papa – non dovremmo produrre storie distruttive e provocatorie, che logorato e spezzano i fili fragili della convivenza, ma dovremmo produrre racconti costruttivi, che sono un collante dei legami sociali e del tessuto culturale. Chiediamoci, allora, cosa passa oggi sui telai della nostra comunicazione e sui telai della comunicazione in generale.

Sui telai della comunicazione di qualche giorno fa, purtroppo, c’era un episodio aberrante, distruttivo, che ci porta con la memoria ai campi di concentramento. Un brutto episodio avvenuto a Mondovì: una scritta antisemita, con tanto di stella ebraica a indicare la casa di una partigiana deportata nei lager nazisti. Gesto inqualificabile, avvenuto a qualche giorno dalla Giornata della memoria (27 gennaio), che ricorda gli orrori nazisti.

Ci sarebbe da chiedersi se anche questi episodi non siano frutto di quotidiane narrazioni giornalistiche impregnate di odio, di discriminazione, di attacchi allo straniero e al diverso. O anche frutto di narrazioni che ignorano, se non addirittura negano la storia, in un clima di superficialità e di ignoranza. “Questo gesto”, ha affermato il presidente dell’Anpi, Associazione nazionale partigiani di Mondovì, “ha alle spalle una situazione di impoverimento culturale: oggi persino nelle scuole non si parla più di cosa fu l’Olocausto. In un liceo, dove sono andato a parlare agli studenti, mi sono sentito chiedere da una professoressa come erano organizzate le scuole ad Auschwitz”.

È monsignor Miragoli, vescovo di Mondovì, ha aggiunto: “Ripristinare le parole e i modi che inaugurarono la tragedia più spaventosa del secolo scorso è prova di un ritardo culturale e di una meschinità umana di fronte ai quali ogni uomo degno di questo nome inorridisce”.

È questo un ambito in cui la narrazione giornalistica può e deve mantenere una memoria onesta e veritiera del passato. Per portare alla luce figure di grande valore che ci ricordino quel che è stato l’orrore del passato, perché l’hanno vissuto sulla propria pelle, come Liliana Segre sopravvissuta ai lager, che da anni si spende per tenere viva la memoria, ma anche per un’opera di educazione umana e civile nelle scuole, affinché quei tempi non si ripetano più e si possa guardare con più fiducia al futuro.

La narrazione giornalistica deve far sì che corrisponda al vero il detto: “La storia è maestra di vita”. Un popolo che perde la memoria del suo passato perde anche la sua identità, dimentica gli avvenimenti che l’hanno segnata – nel bene e nel male – e che aiutano a comprendere il presente e a costruire il futuro. Sono i mezzi di comunicazione che ci nutrono la memoria, aiutandoci a comprendere la storia. Il giornalista, allora, è il “cronista della storia”, chiamato a ricostruire con verità e onestà la memoria dei fatti.

Se avessimo chiari questi princìpi e ben presente la memoria del passato, anche il fenomeno dell’immigrazione avrebbe un’altra narrazione sui mass media, fatta non di numeri e incitamenti alla xenofobia, ma di storie di persone, ciascuna con una propria umanità, racconti di disperati che non vengono a far turismo da noi, tanto meno a invaderci e portarci via il benessere, ma fuggono da guerre, persecuzioni e fame alla ricerca di speranza e futuro per sé stessi e le proprie famiglie.

Allo stesso modo dei nostri connazionali, nel secolo scorso, che cercarono fortuna all’estero, e hanno patito quello che noi oggi facciamo patire agli stranieri in Italia. Siamo un popolo dalla memoria corta. Ma, con un’informazione più veritiera, noi siamo chiamati a costruire ponti e non muri tra passato e presente, ma anche tra persone e popoli di origine, tradizioni e fede differenti.

Non bisogna, tuttavia, dimenticare – come ci ricorda il Messaggio di papa Francesco – che nella storia “serpeggia il male”, e non tutte le storie sono buone. “Quante storie ci narcotizzato, convincendoci che per essere felici abbiamo bisogno di avere, di possedere, di consumare. Quasi non ci accorgiamo di quanto diventiamo avidi di chiacchiere e di pettegolezzi, di quanta violenza e falsità consumiamo”.

Si pone allora il problema: dobbiamo raccontare anche il male? Ne vale sempre la pena raccontarlo? E se sì, come raccontarlo? In effetti, la soluzione non è difficile: il problema non è “se” raccontare il male, ma “come” raccontarlo.

Scrive Lucio Brunelli, già direttore di Tv 2000: “La realtà non può essere ignorata da chi fa informazione. Altrimenti raccontiamo un mondo da favola, un mondo da sogno, non saremmo credibili come professionisti, come persone, come cristiani. Non va censurato nulla. La realtà può far male, ma a un credente non deve far paura. È lo sguardo di chi racconta che fa la differenza”. E il Messaggio del Papa aggiunge: “Anche quando raccontiamo il male, possiamo imparare a lasciare lo spazio alla redenzione, possiamo riconoscere in mezzo al male anche il dinamismo del bene e dargli spazio”.

Una delle linee editoriali indicate dal beato Alberione, fondatore dei Paolini, è “Parlare di tutto, cristianamente”, che da un lato vuol dire di non parlare solo ed esclusivamente di Vangelo e religione; dall’altro vuol dire situare qualsiasi situazione, anche la più negativa, in una prospettiva cristiana, cioè leggere la realtà con lo sguardo del Vangelo, che è uno sguardo di misericordia e di attenzione ai più umili. In questa prospettiva, non c’è argomento che debba essere tabù. Il Messaggio del Papa ci ricorda: “Dopo che Dio si è fatto storia, ogni storia umana è, in un certo senso, storia divina. Nella storia di ogni uomo il Padre rivede la storia del suo Figlio sceso in terra. Ogni storia umana ha una dignità insopprimibile”.

La verità, infine, non va contraffatta neppure a scopo di bene, come è successo qualche anno fa a monsignor Dario Viganò, prefetto della Segreteria della Comunicazione in Vaticano, che per dimostrare la piena continuità tra il magistero di Benedetto XVI e di papa Francesco ha dato una versione parziale e fuorviante di una lettera di Ratzinger, operazione scoperta poi dai giornalisti che l’hanno portato alle dimissioni.

Il racconto deve essere sempre vero, consapevoli che il male esiste e che la “zizzania” e le “sozzure” ci sono anche all’interno della Chiesa. C’è, però, modo e modo di raccontare debolezze e peccati di uomini di Chiesa, dalla pedofilia del clero alle divisioni nella stessa Curia romana. C’è chi punta al sensazionalismo e allo scandalo per dire che tutto è marcio nella Chiesa; altre cronache, invece, sono più rispettose della verità e delle persone, senza nulla nascondere o manipolare con l’intento di evitare scandalo ai fedeli.

E’ vero che nella Chiesa ci sono scandali e divisioni, ma c’è anche tantissimo bene e altre realtà – basti pensare ai missionari o ai cristiani “martiri” per la fede, vittime di attentati nel mondo – di cui nessuno parla e che meriterebbero d’essere portati agli onori della cronaca, in prima pagina.

Per concludere, come giornalisti dovremmo aspirare a essere più amati che temuti, dovremmo cioè metterci non al servizio di interessi di parte, ma tessere i fili di una pacifica convivenza e coesione sociale. Come dice Francesco: “In un’epoca in cui la falsificazione si rivela sempre più sofisticata, raggiungendo livelli esponenziali (il deepfake), abbiamo bisogno di sapienza per accogliere e creare racconti belli, veri e buoni. Abbiamo bisogno di coraggio per respingere quelli falsi e malvagi. Abbiamo bisogno di pazienza e discernimento per riscoprire storie che ci aiutino a non perdere il filo tra le tante lacerazioni dell’oggi; storie che riportino alla luce la verità di quel che siamo, anche nell’attività ignorata del quotidiano”.

Antonio Sciortino già direttore di Famiglia Cristiana e attualmente direttore di Vita Pastorale

 

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