IL COMMENTO/1 Il 2010 è l’anno della svolta, il momento in cui gli inquirenti della Direzione investigativa antimafia (Dia) di Torino, attraverso l’operazione Minotauro condotta dai Carabinieri, rivelano l’esistenza in Piemonte di 10 “locali”, cellule, della ’ndrangheta, con ramificazioni in tutte le province a eccezione di Novara.
Il Piemonte si scopre vulnerabile. «Non è una presenza basata sul controllo militare del territorio come nelle aree d’origine, in Calabria, una strategia considerata poco funzionale. Per lo spaccio di stupefacenti è necessaria, invece, una rete di “vedette”», ci spiegano fonti della Dia piemontese. «Se dovessero iniziare a sparare anche al Nord attirerebbero l’attenzione e ciò significherebbe operazioni su vasta scala delle Forze dell’ordine, l’ultima cosa che questi soggetti vogliono». I panni sporchi si sciacquano altrove. «Ci sono casi storici di regolamenti di conti in Calabria per screzi avvenuti al Nord nella competizione fra gruppi che cercano di prevalere nella gestione degli affari illeciti», prosegue il nostro interlocutore. Quegli interessi significano una commistione di attività lecite e illegali: traffico di stupefacenti e appalti edili su tutti. «Il denaro proveniente dalla vendita degli stupefacenti viene riciclato e ripulito attraverso la partecipazione agli appalti».
I controlli sono stretti, ma esistono scappatoie, «se ad esempio le ditte sono in subappalto» o intestate a terzi. «Ben consigliati da commercialisti che immancabilmente riescono ad avere uno stipendio “regolare” e stipulare transazioni legittime. L’operazione Minotauro è lo spartiacque per la presenza ’ndranghetista: si inizia da Torino con 151 arresti e nel 2011 è la volta delle province di Cuneo, Asti e Alessandria, la “locale” del basso Piemonte. «La realtà torinese è complessa rispetto a quella di Cuneo ma le strutture si sono moltiplicate sul territorio. Le precedenti inchieste avevano affrontato ambiti specifici, come contrabbando o gioco d’azzardo, ma era mancata la profondità».
Davide Gallesio
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