Nel Centro di prima accoglienza: impegnati per un futuro migliore

Da quattro decenni il Cpa di via Pola svolge una funzione sociale: accoglie i senzatetto altrimenti destinati alla strada

Nel Centro di prima accoglienza: impegnati per un futuro migliore

LA STRUTTURA Di sera, alle 19.30, i tavoli di legno sono già vuoti. Solo caraffe e alcune pagnotte rimangono a presidiare. Trenta persone (ma in primavera e in estate sono molte di più) hanno appena terminato la cena e la sensazione, guardando la stanza, è di essere in una colonia per ragazzi, in montagna. Quelle che da bambino ti facevano sentire lontano da casa, ma anche parte di un tutto in cui nessuno ti avrebbe fatto male.

Negli ultimi quattro decenni il Centro albese di prima accoglienza, in via Pola, ha svolto una funzione sociale determinante. La struttura accoglie i senzatetto, giovani e uomini (non ci sono donne, al momento) che altrimenti dormirebbero per strada: non per scelta o per colpa, ma perché vittime di una catena di eventi politici ed economici superiori a qualsiasi possibilità di controllo e in grado di far vacillare ogni esistenza. A questa funzione di soccorso emergenziale (un letto, una cena) si associa una funzione riabilitativa e rieducativa: don Gigi Alessandria, con i suoi 40 volontari, accompagna le persone nella ricerca di un lavoro, nell’apprendimento di una lingua, nel percorso d’integrazione sociale.

Scorrendo la lista degli ospiti, due elementi emergono con forza: l’età media è molto bassa e ci sono ragazzi tra 20 e 30 anni. Molti provengono dall’Africa subsahariana, ma compaiono anche italiani ed europei dell’Est. I confini nazionali non significano nulla in questi luoghi collettivi, di tutti.
Le persone che arrivano dal continente africano scappano da condizioni economiche disperate, dalle guerre o dagli effetti del cambiamento climatico (come siccità e desertificazione). Gli italiani, invece, in genere, sono persone che hanno perso il lavoro o le reti di supporto relazionale.

In entrambi i casi si tratta di individui vulnerabili, ma i pregiudizi sugli ospiti del centro sono diffusi. Molti reputano queste persone non solo colpevoli della propria condizione, ma spesso li tacciano di essere anche tossicodipendenti, alcolisti e degenerati. Questo atteggiamento è difensivo e falsificatorio: attribuire responsabilità della miseria all’individuo che la subisce consente di evitare l’autocritica, la consapevolezza del proprio contributo al sussistere di un meccanismo sociale che penalizza chi parte da condizioni svantaggiate.

Il Centro di prima accoglienza offre 18 posti letto per trascorrere la notte (sono quasi sempre tutti occupati) e una cena per un massimo di 60 persone. Chi frequenta i locali di via Pola non ha altro posto in cui dormire o dove mangiare. L’alternativa sarebbe la strada.

Ma non è un aiuto compassionevole che cercano questi uomini, bensì una considerazione da parte della comunità –uomini al pari degli altri –, un’occupazione che consenta loro di sopravvivere e inviare soldi alla famiglia, in patria. Hanno bisogno di amici e di una casa.

Tutti possiedono documenti in regola oppure sono in attesa di conferma del visto. Tutti cercano lavoro oppure prestano servizio in una fabbrica, in un autolavaggio, nel nostro comparto agricolo. Sono persone che arricchiranno il luogo in cui abitiamo grazie alle loro qualità umane, linguistiche, culturali, relazionali. Don Alessandria ha instaurato un rapporto familiare e amicale con questi giovani, che lo chiamano affettuosamente nonno e gli sono riconoscenti. Ma il sistema sociale sovente non riconosce la funzione del Centro di prima accoglienza della Caritas, che di fatto risulta isolato e in difficoltà. Servono infatti nuovi volontari per le pulizie, risorse per ristrutturare i locali e una considerazione diversa da parte di tutti. Serve che la collettività inizi a reputare la struttura per quello che è: un luogo di salvataggio e di costruzione dell’umanità.

Matteo Viberti

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