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«Purtroppo, non ha senso dire che la mafia in queste zone non esiste»

IL COMMENTO/2  Ma cosa è cambiato negli ultimi anni? Che cosa ha permesso alle Forze dell’ordine di scoprire le numerose connessioni mafiose in una regione in apparenza indenne da queste contaminazioni? Ancora la nostra conversazione con la Dia, Direzione investigativa antimafia, prosegue: «La presenza dei collaboratori di giustizia ha permesso di capire com’è davvero strutturata una “locale”, i rituali di affiliazione, ad esempio, e l’avanzamento verso una nuova “dote”, cioè il grado all’interno del gruppo operativo, fino alla “santa”, dove si prendono le decisioni importanti». Dagli affari illeciti all’interessamento a favore di personaggi politici, anche in questo caso è stata l’operazione Minotauro a fare da apripista, attraverso il commissariamento di Leinì e Rivarolo, ma sono i più recenti fatti di cronaca a tenere banco, dalla Valle d’Aosta alla vicenda dell’ex assessore Roberto Rosso. «Sono spesso gli stessi soggetti inseriti in lista a cercare la vicinanza di “affiliati”, ai quali però dovranno restituire i favori. Le indagini hanno cioè riscontrato accordi fra candidati e soggetti criminali che possono mobilitare una vasta base elettorale». Ma come? Le modalità dello scambio è la stessa fonte Dia a esemplificarle: «Si può, per fare un esempio, parlare del padroncino che indirizza i dipendenti, ai quali dà magari lavoro in nero». Una inquietante realtà, insomma, fatta di una presenza pluridecennale sul territorio iniziata, come la relazione della Dia chiarisce, con il flusso di emigranti dal Mezzogiorno, oppure legata a personaggi  di spicco delle ’ndrine, inviati al confino in Piemonte fin dagli anni Cinquanta. «Nel 2009 indagini relative agli appalti per le Olimpiadi di Torino 2006 hanno evidenziato qualche ditta in odore di ’ndrangheta: alcuni politici si erano allora risentiti per queste conclusioni. Dire che la mafia in Piemonte non esiste non ha senso».

d.g.

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