Il mito del rogo in Usa e la vera tragedia albese

L’incendio in una manifattura femminile tra ’800 e ’900 era un evento frequente, alla filanda morirono 12 ragazze e bambine

Il mito del rogo in Usa e la vera tragedia albese

8 MARZO Nel nostro Paese la prima vera celebrazione fu nel 1946: in quell’occasione alle dirigenti dell’Udi – Unione donne italiane – venne l’idea di distribuire durante le manifestazioni le mimose, fiori umili e poco costosi (allora!) solitamente in boccio ai primi segnali di primavera. A partire da quel momento i giornali italiani hanno contribuito non poco a ingarbugliare la storia dell’8 marzo, cambiando e ricambiando data, luogo e motivo dell’incendio da cui tutto sarebbe partito. Uso il condizionale, perché le ricerche di Renée Coté e di Tilde Capomazza negli anni ’80 hanno smentito che alle radici della Giornata della donna vi sia stato un rogo colposo.

Perché si è affermata e così a lungo è stata creduta una tale narrazione? La risposta è che raccontava un evento assolutamente plausibile. Fra Otto e Novecento gli incendi nelle fabbriche tessili erano all’ordine del giorno e le conseguenze devastanti. Per restare agli Stati Uniti, se né nel 1910 né nei due anni precedenti c’è traccia di un incendio, il 30 marzo 1911 la camiceria Triangle di New York bruciò con le sue 146 operaie, per lo più immigrate, fra cui molte italiane: le porte erano sbarrate dall’esterno.

La provincia di Cuneo presenta per quei decenni una sequenza impressionante: il 23 settembre 1883 brucia la filanda Dalmasso di Boves, il 13 agosto 1893 il filatoio Geisser a Fossano; nel marzo 1913 a Rocca de’ Baldi avvampano le fiamme nella filanda Giorgis, il cui padrone ha, come allora in America e oggi in certi laboratori clandestini, l’abitudine di bloccare le porte e impedire con cani da guardia che le ragazze siano distratte da aspiranti fidanzati; nella notte fra il 28 e il 29 settembre 1905 prende fuoco la filanda-filatoio Keller di Villanovetta, nel 1906 tocca allo stabilimento Allasia a Verzuolo. Questi incendi non registrano vittime perché scoppiati per lo più di notte, a fabbrica vuota, oppure non raggiungono i dormitori, in cui la maggior parte dei filandieri stipa le ragazze che vengono da fuori paese. Si lavora dalle 6 alle 21 – ben 13 ore – con pause di un’ora per pranzo e cena. Il sabato si smette alle 19 e chi può rientra in famiglia. Il petrolio, usato anche per illuminare gli stabilimenti, è la causa principale dei frequenti incendi; l’altra risiede nell’infiammabilità della materia lavorata (i bozzoli essiccati) e dei macchinari, quasi tutti in legno, a cominciare dalle ruote motrici e dalle piante che trasmettono il moto.

Nel filatoio dei torinesi Bruno e Giorelli ad Alba lavorano molte giovani donne di Cavallermaggiore, alloggiate in due camere che danno sul cortile, anguste e insalubri. Alcune protestano con il direttore che promette una sistemazione migliore. Non fa in tempo: nella notte fra il 18 e il 19 settembre 1882 muoiono in dodici, asfissiate dall’ossido di carbonio sprigionato da una lampada a petrolio non ben spenta. Sono le sorelle Maria, Teresa e Antonia Grosso, rispettivamente di 10, 12 e 15 anni; Caterina Rosa di 17; Caterina Giobergia e Maria Abbà di 16; Margherita, Marta e Antonietta Gonella di 15, 23, e 18 anni, sorelle; Emilia Dallorto di 15; Francesca e Laura Pia di 15 e 17, pure loro sorelle. La tragica scoperta avviene al mattino. Viene avvertito il sindaco di Cavallermaggiore, che accompagna in treno i familiari delle vittime. La scena è straziante: ci sono genitori che hanno perso due, tre figlie; il matrimonio dell’unica maggiorenne era fissato per la domenica successiva. Il sindaco di Alba Astesiano e la Società operaia coprono i muri della città di manifesti a lutto. Al balcone del palazzo municipale si issa il tricolore listato di nero. I funerali tardano qualche giorno, per la necessaria autopsia. Si svolgono il 20. In città chiudono tutte le botteghe. Un lungo corteo parte dal setificio in via Vivaro per dirigersi in duomo. Sfilano la Giunta municipale, parecchie Società operaie maschili e femminili, le compagne di lavoro e molti congiunti delle vittime, gli ufficiali del 44° fanteria, la delegazione di Cavallermaggiore, la banda del reggimento e quella cittadina. Le orazioni funebri sono tenute dall’assessore avvocato Cantalupo per il versante albese, dal conte di Panissera a nome del Comune di Cavallermaggiore e dal dottor Viglino. Si apre una colletta a sostegno delle famiglie.

Livio Berardo

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