Cirio: un piano da seicento milioni subito in Piemonte

«Le misure del Governo sono in parte positive, ma insufficienti. Per questo abbiamo già avviato una cabina di regia con il mondo produttivo per rilanciare l’economia»

Cirio: un piano da seicento milioni subito in Piemonte

L’INTERVISTA  Mentre il Governo inizia a parlare di una “fase due” e Confindustria fa pressione per arrivare a un piano per la ripresa dell’attività nel Nord Italia (si veda anche a pag. 17), in Piemonte gli occhi continuano a essere puntati sull’emergenza sanitaria, con una curva epidemica legata al coronavirus che rallenta meno velocemente rispetto alla Lombardia e al Veneto. Abbiamo cercato di fare il punto con il presidente della Regione Alberto Cirio.

Presidente Cirio, perché oggi in Piemonte ci si contagia di più rispetto alle altre regioni del Nord?

«Nella nostra regione, il contagio è partito in un secondo momento: è un aspetto di cui bisogna tenere conto nel leggere i dati. Siamo considerati una coda dell’epidemia lombarda, con otto- dieci giorni di ritardo, per cui la nostra curva inizierà tra poco a scendere. Sulla mortalità, incide purtroppo il fatto che il Piemonte ha una popolazione anziana maggiore rispetto ad altre regioni. E, anche se a oggi le morti per coronavirus sul nostro territorio sono numericamente inferiori a quelle di Lombardia, Emilia-Romagna e Liguria, questo non allevia il dolore per ogni vita che questa guerra si sta portando via».

Oggi la nostra rete ospedaliera è abbastanza solida o si pensa ad altre strategie?

«Da quando l’emergenza è iniziata, abbiamo potenziato il nostro sistema sanitario, assumendo oltre 1.700 medici, infermieri e operatori. Uno degli sforzi più grandi è stato garantire i posti letto in terapia intensiva: li abbiamo raddoppiati e abbiamo triplicato i posti di subintensiva. Ma ancora ne stiamo predisponendo: lo dimostrano l’apertura dell’ospedale di Verduno e il nuovo progetto per l’allestimento delle Ogr di Torino».

Non c’è stato quindi alcun errore nella gestione dell’emergenza, come invece sostengono gli Ordini dei medici piemontesi?

«Ho ereditato una sanità che aveva punte di eccellenza, come gli ospedali, ma in cui era stata pressoché abbandonata la medicina territoriale, che è l’anello davvero mancante in questa crisi. Per quanto riguarda i tamponi, a fine febbraio in Piemonte erano solo due i laboratori abilitati, per un totale di 120 test al giorno. Tra pubblico e privato, oggi ne abbiamo 18, con la capacità di processare fino a 4mila tamponi al giorno. È vero che i dispositivi di sicurezza sono stati uno dei problemi principali, perché Roma ha centralizzato gli acquisti e per settimane non ha mandato al Piemonte ciò che serviva. Parliamo di una grave carenza del Governo, a cui abbiamo cercato di rimediare rendendoci autonomi: insieme alla Miroglio, siamo stati la prima regione ad autoprodursi le mascherine e, grazie al supporto degli atenei piemontesi e del Politecnico di Torino, oggi ci autoproduciamo anche i reagenti».

Alla luce della situazione attuale, quando il Piemonte potrà ripartire? Come pensa di poter sostenere l’economia e le imprese della nostra regione?

«Fin dall’inizio, per fare le nostre scelte ci siamo basati sul parere di medici e scienziati. Questa però non è solo un’emergenza sanitaria, ma anche economica e sociale. Le misure del Governo sono in parte positive, ma non sufficienti. Abbiamo già avviato una cabina di regia con il mondo produttivo e stiamo riscrivendo il nostro Piano della competitività: era stato pensato per distribuire i suoi effetti su due anni, ma al massimo dovrà avere una ricaduta in tre mesi. Si tratta di oltre 600 milioni di euro, che abbiamo bisogno di mettere in campo adesso, in modo immediato. Per questo ho chiesto a Roma di concederci poteri speciali, come è stato per il ponte Morandi a Genova, ricostruito in un anno, quando in condizioni normali ne sarebbero serviti almeno cinque: oggi dobbiamo mettere in quarantena la burocrazia».

Margherita Ricci

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