EDITORIALE Doveva essere un momento di gioia. Uno squarcio di luce in un cielo rabbuiato da sofferenze e insofferenze, in tempi di coronavirus. Una gioia per tutti. Al di là d’ogni appartenenza, colore politico e credo religioso. Bisognava gioire. E soltanto gioire per una cittadina italiana, tornata agli affetti familiari, dopo quasi diciotto mesi di prigionia. In mano a feroci e fanatici estremisti islamici di Al-Shabaab. Due le scintille a scatenare la “pandemia d’odio”, e non solo sui social, che s’è abbattuta sulla giovanissima Silvia Romano: il prezzo del riscatto e la sua conversione all’islam.
Un politico, in cerca di notorietà, l’ha definita “neo terrorista”. Più d’uno le ha dato dell’ingrata. Qualcuno avrebbe preferito fosse rimasta in Africa. O fosse tornata in una bara, piuttosto che col velo islamico. Le hanno augurato il peggio che si possa immaginare. Di tutto. Oltre a minacciarla di morte. Un folle ha lanciato una bottiglia di vetro contro la sua abitazione. Uno tsunami di insulti è dilagato in Rete. Ora Silvia, paradossalmente, rischia la vita più nel suo Paese che in Somalia, dov’era sotto sequestro d’una delle più feroci organizzazioni terroristiche. Forse, le verrà assegnata una scorta.
A dare il via alla squallida danza, come in altre occasioni, gli immancabili “professionisti” dell’odio. E alcuni politici in testa, ricomparsi negli studi televisivi a sbavare indignazione. A denigrare e spargere insulti. Una vera istigazione alla violenza e alla discriminazione razziale e religiosa. Un gioco al massacro contro una ventiquattrenne, dagli occhi tuttora radiosi, come quando partì volontaria per il Kenya. Nonostante quel che ha patito. Più matura lei, senz’altro, di tanti odiatori e opportunisti. Di quanti hanno approfittato della sua vicenda per rimettere sul banco degli imputati il mondo della cooperazione, del volontariato e della solidarietà. Con accuse infamanti, talora anche ridicole.
Com’era già successo, nel recente passato, col precedente governo e l’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che aveva nel mirino le Ong (da lui definite “taxi del mare”), attive nel Mediterraneo a salvaguardia della vita di tanti immigrati, vittime innocenti. In maggioranza donne e bambini, “sequestrati” come fossero dei pericolosi “invasori”. E lasciati, per più giorni, al largo dei porti italiani, in balia del mare, del cattivo tempo e con scarse condizioni igieniche
Un accanimento incomprensibile, ancora oggi, contro un “esercito disarmato e pacifico”: ventiduemila operatori e ventiquattromila volontari, presenti in quasi tutti i Paesi del mondo. Da quelli più poveri e in via di sviluppo, a quelli ora più provati da Covid-19. Indifferenza, se non ostilità, mostrata anche in tempi di pandemia. Considerati soltanto come “ruota di scorta” o utili “portatori d’acqua”. Niente di più. «Nessuna espressione del Terzo Settore è stata chiamata a far parte dei tanti organi tecnici e delle varie commissioni di esperti», ha denunciato Stefano Zamagni, noto economista, presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali. «Eppure, il nostro Paese vanta un insieme variegato di enti di Terzo Settore che non teme confronti a livello internazionale». E ha aggiunto: «Ebbene, questo mondo non è stato invitato a dare quel contributo di cui è altamente capace e che avrebbe consentito di evitare parecchi errori».
Alle polemiche Silvia non ha mai risposto. Non ha reagito. Anzi, «vi chiedo di non arrabbiarvi per difendermi», ha scritto su Facebook a chi le stava vicino per proteggerla. «Il peggio per me è passato. Godiamo di questo momento insieme». Mentre, da parte sua, in un’intervista a Famiglia Cristiana, don Luigi Ciotti ha detto: «Gli insulti e le offese a Silvia dimostrano quanto sia malato il nostro Paese. Il virus, in questo caso, si chiama capro espiatorio. È il bisogno di costruire un nemico simbolico contro cui una comunità incattivita scarica il suo odio e la sua rabbia. E così nasconde agli altri e a sé stessa le storture al proprio interno, la propria ingiustizia e la propria mancanza di umanità. Il capro espiatorio serve a dare illusoria compattezza a comunità disgregate».
In tempo di pandemia, in un Paese stremato da lutti e sofferenze, è venuta meno anche la pietà umana. Seppellita da una spessa coltre di cattiverie e pregiudizi. Davvero indegni, se non immondi. È mancata quell’umanità, scevra d’ogni altra considerazione, espressa nelle sincere parole del cardinale Gualtiero Bassetti, presidente dei vescovi italiani: «Silvia è una nostra figlia. È una ragazza con una grande grinta e forza interiore che l’ha salvata. È stata spinta da moltissimi motivi religiosi e umanitari, e questo l’ha aiutata a sopravvivere».
O in quelle di don Enrico Parazzoli, parroco di Santa Maria della Misericordia, nel quartiere milanese dove vive la famiglia Romano: «Un anno e mezzo di prigionia sono terribili, è chiaro che ti aggrappi a qualcosa, magari alla religiosità, chiamiamola così, dei tuoi carcerieri. Per Silvia è stata una prova durissima, che nessuno di noi può neanche lontanamente immaginare». Chi, oggi, si interroga sull’autenticità della conversione di Silvia all’islam, farebbe bene a interrogarsi anche sull’autenticità della propria fede cristiana. Non basta esibire, in comizi e manifestazioni, vessilli religiosi, rosari e crocifissi. O semplicemente appellarsi al motto. “Dio, patria e famiglia”. Il Vangelo di Gesù chiama a ben altre testimonianze. Di servizio ai poveri e agli ultimi della società. Sarà Silvia, nel tempo, a elaborare la sua esperienza religiosa. In piena coscienza e libertà.
Ci vuole pudore. Agli “odiatori da tastiera”, un missionario comboniano, padre Giulio Albanese, anch’egli vittima di un sequestro in Africa, seppur breve, ha voluto ricordare una semplice evidenza, a scanso di equivoci: «Silvia non rientrava da una vacanza alle Maldive. Il minimo che subisce una donna rapita da Boko Haram o da Al-Shabaab è l’imposizione della conversione: o ti converti o ti ammazziamo. Asteniamoci, dunque, dalle motivazioni che possono averla indotta ad abbracciare la fede islamica. Prendiamo atto che la sua vita è salva, dopo un lungo periodo di reclusione».
A Silvia, ora Aisha (che significa “viva”), non si perdona la conversione all’islam. E la discesa dall’aereo, che la riportava a casa, indossando il jilbab, l’abito verde delle donne islamiche. Per molti, una vera provocazione. Soprattutto per quei fanatici, ignari di cultura religiosa, che identificano l’islam col terrorismo. E in ogni musulmano vedono un possibile attentatore. Non sanno che in Italia vivono circa due milioni di musulmani. E nel mondo ve ne sono un miliardo e ottocento milioni: tutti terroristi?
L’islam, il vero islam, è una grande religione. Una delle tre grandi religioni del libro, che si rifanno al comune padre Abramo. Con una profonda sensibilità spirituale e sociale. E come tutte le vere religioni è per la pace e per la vita. Quando si uccide nel nome di Dio o di Allah, non c’è vera religione. Ma una forma estremista, una degenerazione del credo religioso. Qualunque esso sia. Ce l’ha insegnato san Giovanni Paolo II (di cui ricorre, quest’anno, il centenario della nascita), quando nell’ottobre del 1986 radunò i rappresentanti delle religioni ad Assisi. «Il trovarsi insieme di tanti capi religiosi per pregare», disse Wojtyla, «è di per sé un invito oggi al mondo a diventare consapevole che esiste un’altra dimensione della pace e un altro modo di promuoverla, che non è il risultato di negoziati, di compromessi politici o di mercanteggiamenti economici. Ma il risultato della preghiera» .
Ce lo insegna, tuttora, anche papa Francesco, che assieme al Grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, ha firmato ad Abu Dhabi, nel febbraio 2019, il documento sulla “Fratellanza umana”. Per promuovere la cultura del reciproco rispetto. Si legge nel testo: «Chiediamo a tutti di cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione».
Il “fantasma dell’islam” ha ricompattato populisti e sovranisti, che hanno fatto del cristianesimo una bandiera identitaria. Da contrapporre a differenti credi religiosi. E per attaccare, senza pudori e rispetto, papa Francesco e ogni sua iniziativa di apertura e dialogo con le altre religioni. In continuità con lo “spirito di Assisi” inaugurato da san Giovanni Paolo II. Il jilbab di Silvia Romano è servito, a questi fanatici, per riaccendere la crociata contro immigrati e stranieri. Per lo più musulmani.
Quando i consensi elettorali e politici sono in ribasso, tutto serve alla causa.
Antonio Sciortino,
già direttore di Famiglia Cristiana e attualmente direttore di Vita Pastorale