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La vita è valori e solidarietà, non un mercato

L’INTERVISTA Nella mia famiglia di don Cesare Battaglino, «il vicario» – così era chiamato con orgoglio dai priocchesi – ho sentito parlare fin da piccolo. Mio nonno Giuseppe morì per salvare uno dei propri otto figli, svenuto mentre puliva una botte. Era il 1966 e il parroco era don Cesare. Un curato di paese che rimase vicino a quella famiglia sulle spalle di mia nonna Caterina, capace di crescere otto figli.
Don Cesare guidò la comunità di Priocca per 22 anni, dal 1957 al 1979; nel 1976 fu nominato vicario della diocesi. Mai tagliò il cordone ombelicale con il paese: ricordava la composizione di ogni famiglia ancora quando lo intervistai nella Residenza, a Rodello, due anni fa.

Mi stupì l’apertura mentale di un uomo di 94 anni che parlava di comprensione, uguaglianza, solidarietà, accoglienza. Racconta: «La mia vocazione nacque fin dalla tenera età. A Vezza (il paese dov’era nato il 30 novembre 1924, nda) avevo un esempio di grande rilievo, capace di coalizzare un paese che era molto povero: don Augusto Vigolungo. La Cassa rurale di Vezza, la Cooperativa di consumo, la Cantina sociale sorsero grazie a quel parroco, capace di far capire quanto fosse importante unire le forze e lavorare insieme. “Bisogna aiutarci gli uni gli altri, senza antagonismi, dandoci una mano”, era il suo insegnamento. Seguendo quell’esempio entrai in Seminario, poi iniziò la guerra».

La vita è valori e solidarietà, non un mercato
Il canonico Cesare Battaglino nel 2018, nel suo studio alla Residenza di Rodello

Nel conflitto si distinsero le figure di molti religiosi – primo fra tutti il vescovo Luigi Maria Grassi: «Quando morì, nel 1948, il duomo non riuscì a contenere la gente arrivata per l’ultimo saluto. L’ultimo Requiem toccò a mio fratello – don Mario, il fondatore della Residenza: con la sua voce potentissima, da opera, fece emozionare tutti». Poi continua: «A volte racconto degli episodi e nessuno mi crede: la notte di Natale del 1944 i repubblichini, forti del fatto che nessuno avrebbe immaginato un rastrellamento in quella santa notte, partirono da Alba e andarono sulle colline e uccisero partigiani che stavano festeggiando in famiglia. L’umanità era scomparsa. La guerra è qualcosa che ti resta dentro e non si supera mai: nel 1957, quando sono diventato parroco di Priocca, ho trovato ancora famiglie che aspettavano il ritorno di un figlio dalla Russia. C’erano tante lacrime da asciugare e poca speranza. In Russia morirono 43 giovani di Priocca, annate intere di ragazzi spazzati via dalla follia della guerra». Sono decine gli episodi raccontati da don Cesare, dalla battaglia del 15 aprile 1945, alla fucilazione dei repubblichini Gagliardi e Rossi nel campo sportivo Coppino di Alba, un’immagine che mai dimenticherà.

Don Cesare venne ordinato il 2 gennaio 1949 e diventò assistente al Convitto nel momento in cui la scuola enologica richiamava studenti da tutto il mondo. In quegli anni nacque la Ferrero: «Ho conosciuto tutta la famiglia, in modo particolare Giovanni; quando morì andai a dire il Rosario a casa loro. La Ferrero sarebbe poi esplosa dopo e avrebbe dato vita ad Alba e alle Langhe che conosciamo oggi. La chiave di volta furono le corriere che andavano a prendere gli operai sotto casa e a fine turno ce li riportavano. Fu Giovanni ad avere questa intuizione. Don Pellerino, parroco di Niella, gli disse: “Questa gente che non fa niente a casa, perché oramai l’agricoltura di Langa è scarsa: se voi veniste a prenderli con dei pullman potrebbero lavorare e non abbandonare la terra”. Ci furono delle contrarietà da parte dell’organizzazione dei servizi di pullman, ma la Ferrero riuscì a vincere queste obiezioni e riscrisse la storia, non sradicò i contadini dalla Langa e oggi sappiamo quanto valgano quei terreni un tempo “grami”. Ricordo quando andavamo a confessare in fabbrica a Pasqua, seduti sui sacchi di cacao, poi la Messa in cortile; non è stato un caso che la Ferrero sia diventata un esempio nel mondo. Andammo persino a dire, io e don Gianolio, la Messa a Stadtallendorf, nella sede tedesca». Poco dopo venne il trasferimento a Bologna: «Pensavano che io fossi capace di fare disciplina, il vicerettore nel Seminario regionale di Bologna, ma capirono che non ero certamente il più docile nella disciplina e dopo quattro anni mi rimandarono in Piemonte».

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Il canonico Cesare Battaglino a Vezza, con la famiglia e il fratello, don Mario.

Nel 1957 l’arrivo a Priocca, che segnerà la vita e le esperienze di don Cesare. Tra i suoi meriti per il paese, la nascita della scuola media serale «per i ragazzi che non potevano frequentare di giorno. Don Mattia, il vicecurato, insegnava latino e matematica, due o tre maestre del paese insegnavano italiano, io insegnavo storia e geografia. Abbiamo portato una trentina di ragazzi all’esame di terza media. La parrocchia dev’essere così, deve aiutare la gente. Una dozzina di ragazze finirono a fare le infermiere all’ospedale».

Don Cesare concluse l’incontro con parole profetiche: «Guardo al futuro con preoccupazione. La ricchezza abbassa l’orizzonte delle persone, il secolarismo porta a vivere il presente, a non pensare al futuro, né al passato, né al dopo, né al prima. L’io diventa il re del creato, ma tanti io poi si scontrano. Temo che si arriverà a un punto di rottura; una guerra, un’epidemia: allora sbatteremo la testa e rimbalzeremo. Ci accorgeremo che abbiamo sbagliato e riprenderemo in mano le redini della nostra vita tornando alla dimensione più vera, che è fatta di sentimenti, valori, solidarietà e non di mercato e globalizzazione sfrenati».

Marcello Pasquero

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