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«Ti vorrei abbracciare. Fingi che l’abbia fatto»

«Ti vorrei abbracciare. Fingi che l’abbia fatto»

IL REPORTAGE Come un ritornello, alcune frasi volano nell’aria: «Non ci voleva questo caos» oppure: «Non finisce fino all’autunno» o ancora: «Ti vorrei abbracciare, fai finta che l’abbia fatto». La città il 7 maggio, pochi giorni dopo l’inizio della Fase 2, sembra sonnolenta. Il primo giorno di via libera agli spostamenti per rivedere i congiunti – il 4 – si vedevano in giro carrozzine, persone sulle panchine, nelle piazze, di fronte ai negozi, in macchina. Giusto il tempo di ristabilire un contatto con l’antico, con ciò che la vita era prima della quarantena. Dopo tre giorni tutto pare torni silenzioso in certe ore. È come se le persone fossero impegnate in un’attività profonda, come fossero scese in un mondo intimo che i ritmi precedenti, quelli dello stress e del lavoro continuo, non permettevano. E non scalpitino per tornare alla vita di prima.

Un anziano seduto su una panchina in corso Langhe spiega: «Sento l’odore dei fiori, prima solo lo smog. Certo, la vita è dura in questo periodo. Vivo in un appartamento molto piccolo e sono da solo, mia moglie è mancata qualche anno fa. I miei figli mi aiutano con la spesa. Avrei immaginato una vecchiaia migliore. Però, da alcune settimane la città sembra più vivibile. Sembra ci sia spazio anche per me. Pare che tutto respiri».

È come se questa limitazione esterna costringesse a un’evoluzione interna, un’invisibile rivoluzione. Un ragazzo di diciassette anni è in bici in piazza Michele Ferrero. Dice: «La scuola non mi è mai piaciuta. Non smanio per tornarci, a settembre. Eppure lo farò, più convinto di prima. In questi mesi ho trovato qualcosa di molto importante. Ho capito che cosa voglio fare nella mia vita: il biologo marino. Penso che di epidemie come questa ne dovremo affrontare in futuro». In una via laterale di corso Piave, di fronte a un negozietto etnico, alcuni uomini conversano tra loro. Vengono dall’est dell’Europa, ma sembrano in città da molto tempo: «Ci hanno lasciati soli», dice uno. «Se continuiamo così dovremo chiudere il negozio». E un altro: «Io sto comprando al discount. I miei figli non potranno mangiare scatolette a lungo». Non tarda a emergere il contrappeso. Il terzo uomo dice: «Ho un amico che mi ha chiesto di iniziare a coltivare un orto, a venti minuti da Alba. È molto grande. Potreste darmi una mano?». Gli altri due ci pensano, rimangono assorti nei pensieri. È come se la sofferenza creasse aperture e inconsapevoli ritorni a qualcosa che era andato perduto, a una possibilità.

L’ultima persona incontrata è una mamma che tiene per mano un bambino, vicino al liceo scientifico. In lei non c’è istinto al cambiamento, incarna l’arrendevolezza. Il bambino sembra stare male, starnutisce. «Ha solo l’allergia», dice la mamma, come a scusarsi. «C’è quasi da sentirsi in colpa a stare male! Dobbiamo stare attenti a non fare come i cammelli, che diventano ciò che il padrone vuole. Perché in questo momento, chiunque si può approfittare di noi, che fatichiamo ad arrivare a fine mese». La donna sembra stanca: dice che lavora molte ore al giorno, c’è da gestire la didattica a distanza del figlio, la cucina, la spesa. Il suo ex marito abita a Torino.

Nei suoi occhi si specchia il lato insidioso della pandemia, quello di chi percepisce il proprio confine violato, la propria interiorità esposta, il proprio piccolo quotidiano traballante. Il bambino alza lo sguardo, chiede: «Mamma, che giorno è oggi?». La donna ci pensa, rimane un attimo in silenzio, poi risponde: «È giovedì oppure venerdì, adesso non ricordo».

m.d.

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