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L’“albero del paradiso” che guarisce ma soffoca le altre piante

L’“albero del paradiso” che guarisce ma soffoca le altre piante

AMBIENTE La biodiversità resta fondamentale per la salute del pianeta e degli uomini. Gli organismi animali, le piante e i microrganismi devono essere rappresentati in tutta la loro eterogeneità in natura, altrimenti si generano squilibri. Ma il costante inquinamento e il conseguente cambiamento climatico hanno causato problemi anche nel territorio di Langa e Roero, con la progressiva sparizione di insetti come ragni, farfalle e ramarri, fino al “genocidio” dei boschi, soppiantati dalla bicoltura di vite e nocciolo.

Una delle principali cause, con devastanti conseguenze, di questa situazione viene individuata nel mondo vegetale. Si chiama ailanto e sembra comparire dal nulla, diffondendosi in modo contagioso, epidemico. Predilige i ruderi e le ferrovie (i convogli ne spargono i semi, involontariamente) come ambienti in cui espandersi. Visto dall’alto, il fenomeno potrebbe essere letto come un escamotage della natura per dichiarare il proprio disappunto verso le pratiche umane. Il nome scientifico di questa pianta è ailanthus altissima, il suo soprannome “albero del paradiso”. Dietro all’etichetta amichevole, però, si nascondono insidie. Perché l’ailanto uccide la biodiversità, soffocandone le forme espressive, occupando lo spazio come un colonizzatore instancabile.

Qual è la sua identità? La pianta è nativa della Cina nord-occidentale e centrale, e venne importata in Europa per la prima volta nel 1740, epoca in cui il gusto per l’esotico influenzava notevolmente il senso estetico collettivo. L’ailanto cresce rapidamente e può raggiungere altezze di 15 metri in un quarto di secolo. Supera raramente i 50 anni di vita, ma visto che gli uomini lo coltivano anche nei giardini, perché affascinati dalla forma del fogliame, si diffonde con rapidità. La carta forestale del Piemonte ne rileva circa 80 ettari nei boschi; il dato non tiene però conto dei numerosi piccoli nuclei presenti ovunque.

L’ailanto si comporta come un colonizzatore che occupa ogni spazio, purtroppo soffocando le forme di vita esistenti. È vero che a questa “cattiva” funzione la pianta ne affianca una curativa: nei testi di medicina cinesi l’ailanto è citato per l’efficacia nel trattare malesseri che vanno dalle patologie mentali alla perdita dei capelli. In passato era anche usato per allevare il bruco di una falena, impiegato a sua volta per la produzione della seta.

L’ailanto ha dunque una doppia identità, anzi tripla, visto che dalla sua lavorazione è possibile produrre un miele monoflora con aroma fruttato, simile al fico, alla pesca e all’uva moscato.

A prescindere dagli elementi positivi, però, il rapporto delle comunità umane con questo nuovo colonizzatore diventa oggi simbolo di una nuova lotta, della necessità di ridurre l’impatto antropico e della protesta di una natura sempre più sovraccarica.

La parola all’agronomo: una pesante minaccia, se non interverremo presto

Parliamo con l’agronomo Edmondo Bonelli.

L’“albero del paradiso” che guarisce ma soffoca le altre piante 1Che cos’è l’ailanto, da dove arriva e quanto è diffuso nei nostri territori?

«L’ailanto è un albero originario della Cina: veniva usato per la produzione di un tipo di seta e per il consolidamento dei terrapieni. È diffusissimo nei nostri territori, dalla pianura fino a circa mille metri di quota».

Perché la sua diffusione andrebbe contenuta e perché invece sembra espandersi in modo incontrollato?

«L’ailanto è un albero competitivo con le specie autoctone, velocissimo nel colonizzare spazi, grazie a diversi stratagemmi utilizzati per soffocare gli alberi concorrenti. Ad esempio, quando una frana lascia libero il terreno, ecco spuntare l’ailanto, che dove si insedia tende a dominare a danno delle altre specie, con conseguente impoverimento della biodiversità. Quasi nessuno conosce la pericolosità e l’invasività di questa specie, per cui è ignorata o, peggio, coltivata nei giardini per il suo aspetto esotico. Sovente tende a formare boschi puri, dove domina. Se non interveniamo, potremmo non essere in grado di controllarlo».

Come si connette l’espansione dell’ailanto con i problemi del territorio, come la monocultura intensiva oppure la sparizione dei boschi?

«La sua diffusione è favorita dalla mancanza di un popolamento vegetale stabile: in un bosco l’ailanto non entra, perché non trova spazio. Ma se perturbiamo l’ambiente movimentando terra, ecco che gli diamo modo d’insediarsi. La causa della sua diffusione è l’abbandono dei terreni che non sono più coltivati ma che non hanno la capacità di tornare bosco».

Che cosa è possibile fare?

«Per prima cosa bisogna fare conoscere a tutti la pericolosità di questa specie invasiva. Peraltro, ciò che avvantaggia l’ailanto è la scarsa cura delle zone non coltivate. Gli incolti andrebbero rinaturalizzati, non abbandonati in una condizione di degrado o privati della loro originaria identità botanica. Per il resto, sugli esemplari adulti di ailanto è opportuno intervenire in primavera, asportando un anello di corteccia alto circa dieci centimetri, in modo da impedire il passaggio della linfa discendente senza stimolare l’emissione di polloni. È invece necessario eliminare gli esemplari giovanissimi con tutte le loro radici».

m.v.

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