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All’Università di scienze gastronomiche più o meno studenti?

INDAGINE Cosa accade nel tempo del Covid-19 nell’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo, l’ateneo più vicino alla capitale delle Langhe? Gli immatricolati nell’anno 2019-2020 erano 115. «La caratteristica dell’università è che gli studenti per poter accedere ai corsi devono superare una prova di ammissione e sono tenuti a corrispondere elevate tasse di iscrizione (mediate dalle borse di studio). La composizione studentesca è carattezzata da allievi che provengono da fuori: su 100, 25 risiedono in Piemonte, 44 provengono da altre regioni italiane e 31 da Paesi stranieri. Nel 2019-20 i principali Paesi di provenienza sono Germania, Israele e Brasile», spiegano le ricercatrici Ires Federica Laudisa e Daniela Musto.

Quanti si immatricoleranno a Unisg nel 2020-21? L’università ha annunciato che la didattica in presenza riparte questo settembre, con l’ausilio di nuove proposte logistiche e organizzative. Proseguono le ricercatrici: «Per rispettare le norme relative alla sicurezza e alla salute è stato previsto il dimezzamento delle presenze nelle aule, per questo si è resa necessaria la disposizione di nuovi spazi per accogliere gli studenti. Gli chef delle Tavole accademiche, ovvero la mensa dell’università, stanno progettando un menù da asporto che verrà consegnato direttamente agli studenti in aula, previa prenotazione. Inoltre, grande attenzione è stata posta sulla ripartenza dei viaggi didattici, una delle attività caratteristiche dell’ateneo. I viaggi ricominceranno da ottobre, inizialmente verso destinazioni italiane e con numeri ridotti di partecipanti».

Secondo il primo scenario previsionale ipotizzato da Ires, l’ateneo di Pollenzo registrerà un +22 per cento di immatricolati nel 2020-21. Stima positiva, in cui l’epidemia ha un’influenza addirittura positiva nel determinare la scelta degli studenti.

Nel secondo scenario si ipotizza un -3 per cento di immatricolazioni. Nel terzo scenario, la diminuzione supererebbe i 4 punti percentuali. Numeri calcolati in base a varie ipotesi su come gli studenti reagiranno alla pandemia, alle norme sanitarie, alla paura e alla pressione mediatica.

Un laureato a Cuneo guadagna meno dei suoi colleghi piemontesi

Parliamo con Daniela Musto, ricercatrice di Ires Piemonte.

La provincia di Cuneo è un contesto particolare, a forte vocazione agricola e manifatturiera. Molti ragazzi preferiscono entrare subito nel mondo del lavoro. Secondo lei, quanto sarà importante avere una laurea nel mondo del futuro per un giovane della provincia?

«I dati sugli esiti occupazionali distinti per livello di istruzione confermano che investire in istruzione conviene ancora. Secondo i dati pubblicati da Eurostat, nel 2019 il tasso di occupazione della fascia di età 20-64 in Italia è risultato pari al 79 per cento tra i laureati e al 66 tra chi è in possesso di un diploma. Gli stessi dati per il Piemonte mostrano come il tasso di occupazione dei laureati sia pari all’83 per cento per i laureati e al 73 per i diplomati. Inoltre, secondo i dati pubblicati dall’Ocse, un laureato in Italia guadagna mediamente il 39 per cento in più rispetto a chi possiede il diploma».

A proposito di condizione occupazionale e retribuzione netta mensile: quale la condizione dei giovani sul territorio?

«Dopo un anno dalla laurea, in provincia di Cuneo il 74 per cento dei laureati magistrali lavora, dato ben più elevato rispetto a quello emerso per le altre province piemontesi, pari al 69. La quota di quanti non cercano perché ancora impegnati in formazione post laurea è analoga tra i due gruppi e pari al 17 per cento. A un anno dal titolo, un laureato magistrale in Piemonte guadagna mediamente 1.380 euro netti mensili, che diventano 1.477 dopo 3 anni. Il reddito medio tra i laureati residenti in provincia di Cuneo è inferiore alla media piemontese e pari a 1.305 euro a un anno dalla laurea e 1.444 euro dopo tre anni».

Abbandono scolastico record tra gli stranieri

Parliamo con Federica Laudisa, ricercatrice di Ires Piemonte.

Il mondo universitario attuale è pensato anche per le minoranze (migranti, disabili, fasce economiche svantaggiate) oppure vi risulta escludente verso di esse?

«Sì, il sistema universitario tiene conto degli studenti che provengono da contesti economicamente svantaggiati. Attraverso le politiche di contribuzione studentesca – ovvero prevedendo l’esenzione totale e parziale dal pagamento delle tasse universitarie in base all’Isee – ogni ateneo adotta la propria politica contributiva. Tuttavia con la legge di bilancio 2017 fu introdotta una rilevante novità (quasi rivoluzionaria): l’introduzione di una fascia di esenzione totale per gli studenti con Isee fino a 13mila euro, valevole per tutti gli atenei su tutto il territorio nazionale. In breve, a partire dal 2017-18 è consentito l’accesso gratuito all’università a chi versa in condizioni di particolare svantaggio economico. Questa riforma purtroppo è passata quasi sotto silenzio a livello mediatico. Sarebbe invece necessaria una capillare opera di informazione rivolta agli studenti degli ultimi anni delle scuole secondarie superiori, soprattutto tra gli iscritti agli istituti tecnico-professionali, poiché sono i meno propensi a proseguire gli studi a livello universitario».

Quali le misure adottate per contrastare l’impatto della crisi economica nel decreto Rilancio?

«Per fronteggiare l’eventuale calo di iscritti, a causa della crisi economica conseguente alla pandemia, il Governo ha stanziato nel decreto Rilancio 165 milioni di euro per ampliare la no tax area, elevandola da 13mila a 20mila euro di Isee. Si tratta di una misura apprezzabile ma contingente, perché valevole solo nell’anno 2020-21. Sempre attraverso il decreto Rilancio sono stati stanziati 40 milioni di euro aggiuntivi per le borse di studio».

Quale la situazione degli studenti stranieri?

«Purtroppo non esistono misure specifiche adottate dagli atenei per gli studenti di seconda generazione, o meglio, sono le stesse degli studenti italiani in condizione socio-economica di svantaggio. In realtà, le politiche a favore della prosecuzione degli studi di questi studenti dovrebbero essere attuate nettamente prima: l’abbandono scolastico è dell’11,3 per cento tra i giovani italiani, mentre tra i giovani con cittadinanza straniera è oltre il triplo (36,5 per cento)».

m.v.

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