Con Paolo Tibaldi scopriamo perché alcune persone vengono definite “Cacàm” in piemontese

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Cacàm: Autorità, personaggio importante, caporione, gerarca. Individuo saccente, presuntuoso, superbo, borioso

Sapete quando, proprio lì davanti, i posti sono riservati? A chi, ormai non si chiede neanche più. Alle autorità! E per autorità si intende ogni genere di personaggio imbellettato, ingiacchettato, incravattato, ma soprattutto un po’ superbo e borioso. A furor di popolo entriamo nel mondo dei Cacàm.

    “Le parole sono importanti” diceva Nanni Moretti in un suo film, eppure sembra che troppo spesso le parole perdano significato. Ci fu un tempo in cui gli onorevoli erano così chiamati per un motivo veramente degno d’onore, vale a dire la sostanziale rinuncia di denaro per la loro attività politica. Si parla di altri tempi e altra tempra. Oggi la nomenclatura altisonante è rimasta, ma la rinuncia è scomparsa, anzi, quasi che venisse l’idea di aumentare un po’ le indennità, verrebbe fomentata.

    Eccola qui, dunque, la superbia per la quale i dirigenti vengono chiamati cacàm (o cacàmu che dir si voglia) in piemontese. Qualcuno li chiama anche can gȓòss, cioè “cani grossi”, pezzi grossi della società che, dove arrivano a comandare, tutti stanno ad ascoltare; insomma qualcuno con la famosa voce in capitolo. Fè ëȓ cacàm, significa in fin dei conti darsi delle arie, vantarsi con boria e saccenza per sottolineare la propria superiorità rispetto agli altri.

    Ce n’è per tutti! Sì, perché cacàm è al maschile, ma se vogliamo anche al femminile c’è la versione della donna saccente, sapientona, superba: cacamëssa.

    Da dove arriva questa parola? Nulla ha a che vedere con le parolacce; l’ebraico biblico ci riferisce che HAKHAM è il sapiente, il rabbino. Ampiamente documentata nelle diverse parlate italiane con significato originario e con ampliamento di accezione, indica una persona di alto livello culturale, ma è anche un titolo onorifico ai grandi rabbini; originariamente il termine è impiegato sia in forma positiva – nel senso di persona istruita -, che conosce bene i precetti religiosi e la lingua ebraica, sia con connotazione dispregiativa per indicare chi crede di sapere tutto, vale a dire alcuni vanagloriosi che abbiamo in mente quasi tutti.

Del resto, si suol dire con un’azzeccata metafora che quel prodotto organico – forse innominabile – ma di cui tutti siamo artefici, quandi ch’a monta a o scàgn, ò ch’a spussia, ò ch’a dà do dànn.

Paolo Tibaldi

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