Paciàra: Accordo, convenzione, transazione, preventivo di spesa.
Per paciàra s’intende il preventivo di spesa per un dato lavoro che un cliente chiede a un fornitore. Quante volte abbiamo sentito dire – o magari siamo proprio noi stessi ad aver detto – An sȓa paciàra, dàme dcò lolì! (sul prezzo accordato, dammi anche quello!). Un’esclamazione che raramente lascia scampo: il più delle volte la richiesta viene esaudita, a meno che dall’altra parte non ci sia qualcuno che voglia “tirare il colpo”.
Colui che chiede qualcosa in sovrappiù sull’accordo preventivato, forse non ha ottenuto lo sconto desiderato e così, costretto ad accettare di spendere la cifra pattuita, vuole qualcosa in più: solitamente si tratta di oggetti o servizi pertinenti, raramente pura manodopera.
Può essere la richiesta a un muratore di rimettere a punto le piastrelle sottratte per svolgere un lavoro, o a un imbianchino di lasciare una tòla (latta) del colore appena dato, oppure a un meccanico di abbuonare un lavoretto al proprio veicolo, dopo averne fatto uno ben più consistente ed esoso. Tutto questo an sȓa paciàra, an s’ëȓ pàt.
La pax clara, è l’accordo pacifico e dichiarato. Patti chiari e amicizia lunga. Ecco da dove può arrivare il proverbio italiano. L’etimologia di paciàra è invece più incerta, ma le tante interpretazioni convergono sul latino. Troviamo l’antenato del verbo pattuire (pacta – pactum al singolare – è il patto inteso come contratto); non si disdegna il verbo pattare, pareggiare per ovvie ragioni assonanti e di contenuto. Epàtta, invece, è una voce edotta del latino tardo epacta (pl. epactae), a sua volta dal greco EPAKTAI, che indica i giorni intercalari che servono a pareggiare l’anno solare con l’anno lunare. Possiamo anche fare un confronto con una lingua nostra parente, il provenzale, dove il pacharaco è la promessa. Ecco suffragata la nostra paciàra, che nulla ha a che vedere con la paciarin-a, che è invece una pozzanghera di fanghiglia tipica di questa stagione.
Mi vien da dire che lo spirito del commercio piemontese ha un’antropologia forse più forgiata del commercio stesso.
Paolo Tibaldi