Stiamo decimando le nostre api: oltre un milione e mezzo di danni

Stiamo decimando le nostre api: oltre un milione e mezzo di danni

AMBIENTE  Il cambiamento climatico è un concetto ripetuto dai media, ma che nella mente delle persone assume contorni ancora vaghi, dal sapore di profezia più che di realtà. Non ci allarma come il Covid-19, ad esempio. Eppure, è un problema forse più grave. Il fenomeno peraltro già si concretizza nel nostro emisfero sotto forma di temperature sfasate, perturbazioni estreme, instabilità. Iniziano a comparire anche da noi i segni di una mutazione causata dall’invasiva azione umana sulla natura e da visioni del mondo incapaci di ragionare sul lungo termine.

Le alluvioni d’inizio ottobre nel Cuneese sono un esempio molto vicino: esondazioni improvvise, grandi concentrazioni di piogge in pochi minuti, danni a coltivi, abitazioni, infrastrutture e persone. Ma a pagare le conseguenze di un utilizzo della natura senza discernimento sono per primi gli insetti che, purtroppo, non hanno voce per farsi sentire. In particolare le api, senza le quali l’intero ecosistema collasserebbe, visto che le popolazioni che abitano gli alveari consentono l’impollinazione dei fiori e quindi sostengono la base dei cicli naturali.

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Aspromiele, associazione che segue gli apicoltori, la scorsa settimana ha raccolto le segnalazioni dei danni subìti dopo gli ultimi eventi alluvionali: in Piemonte risultano coinvolte 48 aziende per un totale di 3.807 alveari. La stima dei danni è quantificabile in un milione 646mila euro, buona parte dei quali in provincia di Cuneo (si vedano anche gli altri servizi di queste pagine). C’è rimedio? Nel lungo termine è possibile prevenire, adottando politiche e comportamenti ecosostenibili. Nell’immediato, è attiva sul sito www.gofund me.com una raccolta fondi promossa da Aspromiele con Unaapi (Unione associazione apicoltori italiani), finalizzata a fornire aiuto alle aziende.

A queste calamità naturali sempre più frequenti si aggiungono, peraltro, i pesanti guasti provocati dall’utilizzo indiscriminato di fitofarmaci in agricoltura. Questi prodotti chimici, avversi agli equilibri naturali, uccidono ogni anno milioni d’insetti, riducendo in modo preoccupante i livelli di biodiversità. Fatto che – per un caustico effetto collaterale – finisce per danneggiare proprio la qualità delle colture che gli agricoltori tentano di potenziare. Esiste una legge regionale in materia, che vieta «trattamenti antiparassitari con fitofarmaci ed erbicidi tossici per le api sulle colture arboree, erbacee, ornamentali e spontanee durante il periodo di fioritura, dalla schiusura dei petali alla caduta degli stessi».

L’assessore piemontese all’agricoltura Marco Protopapa, ha chiesto di rispettare la normativa, ricordando che il comparto del miele sta attraversando una forte crisi e nel 2019 ha registrato in Piemonte un calo di produzione quantificato in 16 milioni di euro. Ma la radice del problema è di ordine culturale: l’uso massivo di fitofarmaci è indice di un’azione umana finalizzata al profitto, più che alla cura della terra.

Quando gli insetti nelle arnie muoiono di fame

Marco Bergero è un tecnico apistico, rappresentante della sezione cuneese di Aspromiele Piemonte, l’associazione dei produttori.

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Marco Bergero, il tecnico apistico di Aspromiele, al lavoro con le api.

Quali sono i danni registrati nel settore apistico in provincia di Cuneo a causa del recente maltempo, Bergero?

«I danni sono stati ingenti, soprattutto lungo il corso del Tanaro, nel Cebano e nel Monregalese. Sono stati colpiti più di mille alveari e una sessantina di nuclei (alveari in polistirolo, piccoli, contenenti 6 favi): si tratta di circa un quarto del danno rilevato a livello regionale. Il conto economico stimato si aggira per ora intorno ai 500mila euro».

Gli apicoltori, già vessati dalle insidie del cambiamento climatico, avranno il morale a terra. Che fare?

«Dopo un susseguirsi di annate sfavorevoli, soprattutto le ultime due, gli apicoltori sono molto preoccupati. In particolare, le aziende che vivono di apicoltura sono quelle più svantaggiate. Le alluvioni sono da considerare un chiaro effetto del cambiamento climatico: il fenomeno incide sulla biologia delle api e sul loro sviluppo annuale. Inverni troppo caldi e primavere fredde e instabili, con ritorni di gelo tardivo, hanno devastato le recenti produzioni di miele. Ovviamente, essendo le api coevolute nei millenni insieme ai fiori, questi cambiamenti di clima così repentini inficiano l’equilibrio pianta-ape, rendendo sempre più complicato bottinare, con conseguenze negative a tutti i livelli. Gli alveari subiscono in queste situazioni forti stress, specialmente alimentari, e gli apicoltori devono soccorrere le loro api dalla morte per fame».

Può tracciare una panoramica di come si è evoluto il settore apistico in Piemonte negli ultimi 10 anni? Che cosa è cambiato?

«L’ultimo decennio è stato caratterizzato da un andamento decrescente delle produzioni, in particolare del miele d’acacia, che da sempre è considerato l’eccellenza, molto apprezzato. Il castagno, pianta mellifera rilevante in Piemonte, quest’anno, sempre per motivi atmosferici, ha registrato nel Cuneese una produzione dimezzata. Negli anni, poi, un’altra produzione caratterizzante l’Albese, in particolare, ha dato forfait: si tratta della melata di bosco, il miele scuro dal sapore intenso che deriva dagli essudati della metcalfa pruinosa. La sostanza zuccherina che produce l’insetto è molto appetita dalle api, che poi producono il miele di melata, appunto. Nel 2020 questa produzione è stata del tutto azzerata: era un raccolto che chiudeva la stagione apistica, poiché si produce in luglio-agosto».

Roberto Aria

Guido Molinero, di Lequio Tanaro: «Porteremo gli alveari a svernare in Liguria»

«Una discreta fetta della mia azienda è “finita a bagno” in una sola notte: la piena mi ha portato via più di cento arnie: le api che erano all’interno sono tutte morte». Simone Toselli ha un’azienda apistica a Nucetto, in alta Val Tanaro, dove accudisce ben 800 arnie: una parte si trovava nei pressi del fiume fra il 2 e il 3 ottobre. «Il Tanaro ha devastato due apiari: uno a Lesegno e l’altro a Niella: abbiamo cercato anche di recuperare le cassette, ma ne abbiamo trovate solo tre in un’intera giornata passata fra gli argini».

Sono ingentissimi i danni: «Il conto è presto fatto: ogni arnia vale 200 euro, in tutto ho perdite per 20mila euro, quindi, cui si sommano le spese che dovrò sostenere per rimpiazzarle, senza contare la mancata produzione, il prossimo anno», prosegue Toselli.

Gli eventi alluvionali dei giorni scorsi arrivano al culmine di un’annata iniziata male e finita peggio. Ancora l’apicoltore: «Dicono sia la peggiore degli ultimi duecento anni, ma questo maltempo è soltanto un episodio: l’apicoltura è in ginocchio da tempo. La nostra è un’azienda medio grande: spesso riceviamo chiamate da piccoli produttori di miele che ci vogliono vendere api e attrezzature per passare ad altro». Raccolti sotto la media hanno caratterizzato tutto il 2020: «Il miele d’acacia, il più importante in termini economici, è stato scarsissimo: due chili in media per arnia a fronte dei venti di una produzione normale. Scaseggia anche il millefiori, mentre la pioggia e le grandinate hanno rallentato la fioritura del castagno», conclude Toselli.

È Enrico Scotto, apicoltore a Bene Vagienna, a spiegare perché due dei suoi tre apiari, anch’essi travolti dalla furia del Tanaro, si trovavano lungo il fiume la notte del 2 ottobre: «Dopo la fioritura del castagno, di solito, portiamo le api nei fondovalle per la melata di bosco: sono aree poco antropizzate, ricche di prati e di fioriture più tardive, che sono essenziali per preparare gli insetti allo svernamento. È stato un bel disastro! Ho perso 150 arnie sulle 400 della mia azienda: il danno lo dovrò calcolare nei prossimi due anni. Oltre alla mancata produzione di miele, c’è da conteggiare anche le nuove famiglie che avrei potuto vendere e che dovrò invece rimpiazzare».

Sul fronte della produzione preoccupa la flessione della melata, prodotto che si ricava dalle secrezioni di un insetto, la metcalfa pruinosa, che si nutre di linfa vegetale, di cui digerisce la parte proteica, espellendo la zuccherina. «Già oggi, nell’Alessandrino non se ne produce più e sta diventando un problema. La mia azienda è passata da circa 45 quintali, di due anni fa, a zero; oggi gli antagonisti naturali introdotti in agricoltura hanno eliminato l’insetto.

Il raccolto di melata era fondamentale per preparare le api a svernare, poiché le rafforzava, riducendo la moria che, invece arriva anche al 40%: con le nutrizioni artificiali non otteniamo lo stesso effetto». Guido Molinero produce miele a Lequio Tanaro: anche le sue api erano lungo il fiume fino a poche settimane addietro: «Le api vanno ormai portate via: dobbiamo andare in montagna, dove non ci sono coltivazioni. Lungo il fiume ci sarebbe la possibilità di produrre molto miele, i prati sono gialli di tarassaco in primavera, ma si usa diserbante ovunque». Prosegue Molinero: «Avevo apiari a Niella Tanaro e Cherasco, ma li avevo trasferiti poco prima dell’ultima alluvione. Tutti portiamo le arnie nelle basse fluviali: si raccoglie infatti più melata. O, meglio, si raccoglieva, perché la metcalfa è praticamente sparita e, con l’insetto, anche una buona fetta di reddito: «Era l’ultimo raccolto; poteva impattare anche per il 40% sui ricavi. Con la melata si poteva “aggiustare” la primavera scarsa», riprende Molinero, che conclude con una soluzione: «Puntare sui mieli primaverili, portando le api in Liguria a svernare per avere famiglie più forti sulle prime fioriture, come ciliegio e tarassaco, che sono caratterizzate da rese minori, perché le api non sono sviluppate».

Davide Gallesio

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