Recovery fund: a che punto è la notte?

Il Parlamento europeo
Il Parlamento europeo

UNIONE EUROPEA Quasi all’unisono, la decisione del Recovery fund  del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo a luglio era stata salutata come l’alba di un nuovo giorno per l’Unione Europea e il suo futuro. Si trattava, e si tratta ancora, di una speranza fondata, alle prese però in questi ultimi giorni con la preoccupazione che il sole tardi troppo a sorgere con il rischio di illuminare macerie di Europa.

Da come erano andati i negoziati per giungere a quella decisione si era capito che la strada non era certo in discesa: si era dovuto superare gli ostacoli dei Paesi “frugali”, irrigiditi nella loro ostilità a venire in soccorso ai Paesi del Sud dell’Unione; già si intravvedevano le nubi che si addensavano a Est con Paesi come Ungheria e Polonia, sempre più disinvolti con le regole dello Stato di diritto,  e forse non si erano prese abbastanza sul serio le rivendicazioni del Parlamento europeo, nonostante l’ampia maggioranza formatasi per rafforzare il bilancio ma, più ancora, per chiedere il rispetto delle regole della democrazia.

Così non ha stupito più di tanto che la decisione politica di luglio abbia avuto non poche difficoltà a trasformarsi in misure operative, quelle attese adesso nel corso del mese di dicembre, si spera il 10-11 quando si tornerà a riunire il Consiglio europeo.

Ma se anche a quella data sarà trovato un accordo tra le parti resta il rischio di non essere ancora un’alba per tutti. Un po’ perché tutti usciranno malconci da un conflitto di prima grandezza – quello sul rispetto della democrazia nell’Unione – e appesantiti da un ritardo di cui l’emergenza in corso non aveva bisogno.

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Particolarmente malconcia rischia di uscirne, insieme con Ungheria e Polonia, anche l’Italia, non sul versante della democrazia, fragile ma sostanzialmente rispettata, quanto piuttosto su quello dell’implementazione ed esecuzione, alle condizioni previste, delle ingenti risorse messe a disposizione dalla solidarietà europea, con il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) compreso.

Comincia a pesare il ritardo che sembra registrare l’elaborazione del Piano nazionale di resilienza e ripresa (Pnnr) su due versanti, quello nazionale e quello europeo. A livello nazionale i nodi sensibili non sono ancora risolti: a chi debba fare capo per il governo la responsabilità del Piano (si parla del bravo Enzo Amendola, ministro delle politiche europee, ma non sempre la logica coincide con la politica), con quale ruolo per le istituzioni ai vari livelli e quali intese con l’opposizione, con quale coinvolgimento per le parti sociali e con quali investimenti prioritari come richiesto da Bruxelles. Verso l’esterno crea imbarazzo in particolare il ritardo del nostro Pnnr rispetto a due Paesi partner importanti come Germania e Francia, in pista da tempo, che spingono l’Italia a orientarsi su un numero ridotto di priorità condivise, dalla rete 5G al futuro energetico dell’idrogeno, dall’ambiente alle infrastrutture alla digitalizzazione.

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Franco Chittolina, sociologo, ha lavorato per 25 anni nelle istituzioni europee

Inoltre, per non farci mancare nulla, si trascina in Italia il dissenso nella maggioranza – ma anche nell’opposizione – sull’accesso al Fondo salva-setati, il famigerato Mes, con il risultato di indebolire ulteriormente l’affidabilità dell’Italia nell’Ue, dove si stenta a capire come possano convivere la drammatica situazione economica e sociale italiana con il veto alla riforma del Mes e con il rifiuto di prendere in considerazione la possibilità di un prestito 37 miliardi di euro, a tassi di interesse vicini allo zero e con scadenza decennale, destinabili a  spese sanitarie, dirette o indirette, e senza per questo dovervi accedere automaticamente.

Rischiamo di interpretare al rovescio la massima del nostro Gian Battista Vico quando diceva che «parean traversie ed erano opportunità»: con il Recovery fund c’è il rischio che per l’Italia quella che poteva essere  un’opportunità diventi una traversia.

Franco Chittolina

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