Consiglio europeo: fu vera svolta?

Il Parlamento europeo
Il Parlamento europeo

BRUXELLES C’era molta attesa per il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo, la scorsa settimana a Bruxelles. Molta attenzione era destinata allo sblocco del bilancio Ue 2021-2027 e del Recovery fund, a questo collegato: un pacchetto di soldi mai visto, circa 1.800 miliardi deliberati a luglio, ma la cui adozione definitiva era finita sotto ricatto da parte di Ungheria e Polonia che agitavano l’arma del veto per una materia da decidere all’unanimità. Col fiato sospeso non solo i Paesi maggiormente beneficiari di quelle risorse, l’Italia per prima, ma anche quanti avevano a cuore il rispetto delle regole dello Stato di diritto per  l’accesso ai fondi europei: tra questi, in particolare il Parlamento europeo, che quelle regole le aveva  riaffermate, pochi giorni prima, d’intesa con il Consiglio dei ministri e la Commissione europea, coinvolta nella vicenda in quanto “guardiana dei trattati” e da tempo alle prese con procedure di infrazione a quelle regole da parte di Polonia e Ungheria.  Alla ricerca di un’intesa in particolare Angela Merkel, a conclusione della presidenza semestrale tedesca dell’Ue e alla vigilia di lasciare, dopo 15 anni, la cancelleria di Berlino con le prossime elezioni: due buone ragioni per riuscire nell’impresa, oltre quella di proteggere gli interessi della Germania.

Il compromesso, preparato da lunghe trattative nei giorni precedenti, consisteva in una “dichiarazione interpretativa” che salvava capra e cavoli, costringendo Ungheria e Polonia a ritirare il veto in cambio di un tortuoso dispositivo giuridico che senza rinunciare, almeno a parole, alle regole dello Stato di diritto nell’Ue, concedeva spazi di interpretazione tali da almeno ritardare fino al 2022 – anno elettorale in Ungheria –  la loro messa in esecuzione, in attesa di uno scontato pronunciamento della Corte europea di giustizia. Compromesso che ha fatto dire che alla fine hanno vinto tutti, salvo l’impegno – appena annunciato qualche giorno prima dalla Commissione – di “rafforzare la democrazia” che dalla vicenda è uscita invece indebolita: dirà il tempo quanto peserà nell’Ue il contagio delle “democrazie illiberali” di Ungheria e Polonia.

Ma non era questo il solo punto all’ordine del giorno: un altro riguardava la lotta al surriscaldamento climatico, a cinque anni dall’accordo di Parigi che fissava gli obiettivi per la salvaguardia del pianeta e il relativo impegno assunto dall’Unione europea. Qui il confronto è stato più aspro che non nel caso del veto ungherese e polacco e ha costretto i leader europei a fare nottata, giungendo alla fine a un risultato ambizioso: la riduzione delle emissioni di “almeno il 55%” rispetto ai livelli del 1990, inferiore però al 60% richiesto dal Parlamento europeo. Un’evoluzione realisticamente difficile per Paesi ancora molto dipendenti dalle energie fossili, come nel caso della Polonia e non solo, ma sostenuta da importanti risorse finanziarie europee per favorire la transizione. Un risultato che non ha accontentato i movimenti ambientalisti ma che rappresenta per l’Ue una posizione di punta nel contesto globale.

Sul versante esterno dell’Ue bisognava anche affrontare il problema delle sanzioni alla Russia per la vicenda ucraina e alla Turchia per le sue scorribande nel mediterraneo e nell’area mediorientale. Rinnovate, senza troppo discuterne, le prime per altri sei mesi, più contrastato e alla fine di basso profilo, l’orientamento verso la Turchia, avversario con grandi ambizioni geopolitiche ma anche importante partner commerciale dell’Ue e alleato nella Nato. Alla fine il Consiglio si è accontentato di una cartellino giallo, sperando di non dover ricorrere a quello rosso. Tutto sommato non una grande prova di coraggio, tanto divergevano in proposito gli interessi tra i ventisette.

Alla fine, alla domanda se per questo Consiglio europeo sia stata vera svolta vien da rispondere come Manzoni: «Ai posteri l’ardua sentenza», con la speranza che per essi, insieme con il pianeta, si possa salvaguardare anche la democrazia e continuare a considerare il Mediterraneo il “mare nostrum”.

Franco Chittolina

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