Giovanni Romano un maestro tra gli storici dell’arte

RITRATTO  Alla vigilia di Natale, la notizia della morte, a 81 anni, di Giovanni Romano ha inevitabilmente fatto ripensare a quanti esponenti di spicco, tra gli studiosi d’arte, storici e critici, siano scomparsi nel 2020: Maurizio Calvesi, Germano Celant, Philippe Daverio, Lea Vergine, Pinin Brambilla… solo per recuperare qualche nome, scorrendo meccanicamente le pagine dei giornali.
Il nome di Romano però ad Alba risuona in particolar modo, per via di un antico legame professionale, intellettuale e umano che l’ha reso familiare. Originario di Carmagnola, Romano era dal 2010 professore emerito dell’Università di Torino, dove si era laureato (a metà degli anni Sessanta, con una tesi sul Moncalvo) e aveva poi insegnato, fino a farne parte stabilmente, a partire dal 1986, come professore ordinario, approdato alla cattedra di storia dell’arte moderna. Prima, in parallelo agli studi, era stato un giovane redattore della casa editrice Einaudi; quindi, dal 1970, aveva operato (da funzionario a dirigente) nella Soprintendenza per i beni artistici e storici del Piemonte.

Giovanni Romano un maestro tra  gli storici dell’arte
Giovanni Romano

Due campi di intervento, quelli della tutela e dell’insegnamento, che nella sua figura sono compresi e ricordati non solo come tappe biografiche giustapposte ma come esperienze complementari. Dal denso, commosso e orgoglioso ritratto con cui Giovanni Agosti (storico di una generazione successiva, amico e allievo, e anch’egli soprintendente e docente) l’ha voluto ricordare su Alias del 3 gennaio, ricaviamo «il suo vertiginoso sapere, la sua generosità, materiale e intellettuale, il suo occhio eccellente, l’inesausta ricerca metodologica». Era «intrinsecamente maestro», Giovanni Romano, e avrebbe meritato», considera ancora Agosti, «un rilievo ben maggiore, una centralità, sulla scena culturale: ma la storia dell’arte italiana (e non solo), sembra non sapere «riconoscersi in un modello come Romano, che ha smascherato, con il lavoro e senza proclami, le falsità e gli inciampi di una disciplina precipitosamente mediatica».

Centrale e rilevante lo è evidentemente stato per chi l’ha apprezzato come studioso appassionato e come guida di gruppi di lavoro per ricerche, mostre, pubblicazioni di grande valore scientifico. La sua bibliografia, riordinata e pubblicata nel 2009 in un volume di omaggi per i suoi settant’anni, riflette lo spazio vastissimo di interessi che si estendevano dall’alto Medioevo alla contemporaneità, mettendo in dialogo la storia dell’arte con la storia e la letteratura, perlustrando temi e centri maggiori o minori con la stessa coerente adesione; ai suoi estremi, importanti e significativi per richiamare contesti storico-geografici di una vita di indagini, stanno il volume einaudiano su I casalesi del Cinquecento e Rinascimento in Lombardia (Feltrinelli).

La chiarezza – di espressione e di programma – ha orientato con determinazione, fin dagli inizi, lo studio di Romano. In una prospettiva albese, ci fa piacere ritrovarla compiuta nella stagione delle mostre, dei convegni, delle ricerche condotte in collaborazione con la fondazione Ferrero, per la quale, a cavallo del 2000, impostando un lavoro di ampio respiro durato anni, il professor Romano è stato una figura fondamentale. Un maestro e un catalizzatore il cui nome ritorna nelle iniziative (molteplici e interconnesse, dalle esposizioni alle pubblicazioni di studi) legate a Macrino e al Rinascimento piemontese, al marchesato paleologo e alle dispersioni napoleoniche, a Giuseppe Vernazza e alla nascita della storia dell’arte in Piemonte; fino alla mostra che ripresentava ad Alba Roberto Longhi attraverso il suo autoritratto da collezionista.

Longhi, che Romano si era scelto come uno dei suoi maestri non aveva avuto la ventura di incontrarlo di persona, ma la visione della mostra “Arte lombarda dai Visconti agli Sforza”, curata da Longhi a Milano nel 1958, era rimasta nella sua vita come un segno formativo memorabile, forse la schiusura d’un mondo che sarebbe stato anche il suo.

Il suo primo libro, edito dalla Famija albèisa, fu dedicato al coro di San Lorenzo

Guardando con precisione, il primo libro firmato da Giovanni Romano porta ad Alba, e reca nel “finito di stampare” la data del novembre 1969. È la monografia su Il coro di San Lorenzo, pubblicata dalla Famija albèisa in apertura di una collana intitolata Monumenta albensia, con il proposito di raccogliere, nelle parole dell’allora presidente Luciano Degiacomi, «i monumenti di arte e quant’altro interessi la storia della nostra zona, perché attraverso la loro conoscenza si esalti l’amore per la loro conservazione», in questo trovando certo ottima sponda nel giovane ispettore della Soprintendenza alle gallerie del Piemonte.

Illustrando l’opera del maestro intarsiatore Bernardino Fossati (da Codogno), commissionatagli nel 1512 dal vescovo Andrea Novelli, Romano ci accompagna tra Alba, Casale, la Valle Padana, riconsiderando storia e fortuna della prospettiva all’interno della «civiltà delle tarsie», con una dichiarazione di metodo e di intenti sicura e appassionante che si staccava dalla «pura degustazione estetizzante» del capolavoro che spunta isolato in un panorama povero e periferico.  Andrebbe tuttora letta nella sua interezza; qui riportiamo solo qualche passaggio: «In questa nostra regione, meno ricca di altre di opere d’arte, e di conseguenza più velocemente impoverita dalle rapine susseguitesi nel tempo, è giusto in primo luogo costringersi a non dimenticare, neppure per un istante, che le scarse testimonianze rimaste sono sempre documenti frammentari di un tessuto culturale in altri tempi senza soluzioni di continuità.  Spetta a noi di ricostruire per quanto possibile questo tessuto (…). Di qui la conseguente esigenza di collezionare (e collazionare) il maggior numero di dati, anche se apparentemente insignificanti, perché il significato vero appartiene alla serie omogenea di fenomeni, non ai singoli frammenti che, da soli e dispersi ai quattro punti cardinali, costituiscono ben di rado un organismo vivo (…).

La povertà culturale del Piemonte è un luogo comune che ha qualche ragion d’essere, ma che prospera fuor di misura grazie alla insistenza di noi studiosi locali su pochi temi topici, isolati in un mare di cose non vedute, non studiate, disprezzate senza confessarcelo».

Edoardo Borra

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