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Il conte Ottolenghi, benefattore

ANNIVERSARIO Anni fa, cercando tutt’altro (ottimo metodo, dice il poeta), ci era capitato di leggere nelle cronache dei Consigli comunali albesi un nome, anzi un cognome, inatteso e sorprendente. La sera del 23 giugno del 1953 il sindaco democristiano Cleto Giovannoni apriva la seduta commemorando «la recente scomparsa», ad Acqui Terme dove risiedeva, di una signora che, da sposare, faceva Wedekind. Wedekind? Come lo scrittore tedesco? Quel Frank Wedekind (1864-1918), autore tra le altre cose del dramma Il vaso di Pandora?

Per un impulso istintivo, allora, avevamo subito visto materializzarsi Louise Brooks, frangetta e veli e irresistibile magnetismo, a spasso per la sala consiliare, sul tappeto dello scalone del Municipio, per poi svanire dietro una qualche cortina con un sorriso indecifrabile (innocente, spudorato, vampiresco? Nessuno lo saprà mai) mentre i fogli dell’ordine del giorno diventano coriandoli e il verbale resta muto. Far entrare Lulù a un Consiglio comunale del ’53 sarebbe stato un gesto vagamente surrealista, dando per certo che il film di Pabst tratto da Wedekind, uscito nel 1929 tra accuse di immoralità e censure, sugli schermi dei cinema Eden e Corino di Alba non si fosse mai visto, respinto provvidenzialmente dal Tanaro.

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erta von Wedekind zur Horst (1885-1953) al lavoro nel suo studio

L’impulso, naturalmente, ci aveva fuorviati; la malia di Louise Brooks ci aveva spinti all’irriverenza. Non avevamo letto per bene, per intero. Quella sera si commemorava Herta von Wedekind zur Horst, vedova del conte Arturo Benvenuto Ottolenghi, «il quale», veniva ricordato, «ha largamente beneficiato la casa di riposo già Poveri vecchi, e ora intitolata al suo nome». La cosa acquistava senso; tutto tornava; il verbale non mostrava vuoti.

La circostanza ci è tornata in mente in questi giorni, in cui si inaugura nella residenza per anziani Ottolenghi una sala degli abbracci (vedi a fianco); e la notizia cade tra l’altro nel settantesimo anniversario della morte del conte, e della sua disposizione testamentaria, per cui lasciava al ricovero Poveri vecchi di Alba la sua «proprietà in regione Rondò 7 affinché ne faccia la sua sede capace di raccogliere decorosamente e confortevolmente i poveri vecchi della località». Il ricovero era stato aperto vent’anni prima in una casa di via Cerrato presto divenuta, nel difficile Dopoguerra, insufficiente. Le cronache raccontano come sia stata una delle suore di Carità che devotamente lo reggevano a incontrare per via, fortuitamente, l’Ottolenghi; e a chiedergli, per improvvisa ispirazione, se sapesse di qualcuno con un edificio più adeguato da donare all’ospizio.

Arturo Benvenuto Ottolenghi di Acqui (e di altrove nel mondo, in una geografia decisamente cosmopolita) con Alba non ha nessun particolare legame, se non forse quella proprietà, con cascina e terreni, al Rondò, di cui potrebbe anche disfarsi. Se l’avesse venduta, sarebbe stato comunque in favore di una analoga istituzione: il ricovero di Acqui Terme fondato da un suo bisavolo, Jona Ottolenghi («filantropo e patriota mazziniano», troviamo detto), cui risale, nella cittadina, tutta una tradizione di generose beneficenze. Il conte (di fresca investitura, nel 1948, e da parte di Pio XII: sempre per meriti filantropici) decide dunque di destinare la proprietà all’opera pia albese, a patto che Comune e Amministrazione dell’ente si dimostrino seriamente intenzionate e responsabili. Gli albesi, sindaco Giovannoni in testa, sanno cogliere l’opportunità e sostenere l’impegno. Il dialogo costruttivo con la famiglia Ottolenghi, così come la storia della casa di riposo attraverso il Novecento, sono puntualmente ripercorsi, documenti alla mano, da Marialuisa Viglione nel libro Un’oasi nella città, edito da Gribaudo nel 1996.

Ma la biografia stessa, e la personalità dei coniugi Ottolenghi Wedekind non mancano certo di interesse. Si sposano nel 1914: lui, nato nel 1887, discende, per l’appunto, da una famiglia acquese, di origine ebraica, che assomma possidenti, imprenditori e finanzieri su scala internazionale, nonché patroni e mecenati; lei, nata a Berlino nel 1885, è nipote di mercanti e banchieri prussiani, con una solida ramificazione italiana. Il nonno Karl Wedekind, console regio ad Hannover, ha fondato nel 1838 a Palermo (con succursali a Genova, Napoli, Venezia) la società commerciale Carlo Wedekind & Co., che si occupa di importazione e distribuzione di petrolio (materia d’affari anche degli Ottolenghi) e di export di frutta; il figlio Paul (italianizzato in Paolo), banchiere sulle sue orme, riceverà l’incarico di console tedesco in Sicilia.

Il conte Ottolenghi, benefattore
Il busto di Arturo Benvenuto Ottolenghi (1887-1951)

Senza dettagliate biografie a portata di mano, possiamo immaginare che Arturo e Herta si conoscano nel corso di un soggiorno tedesco del giovane Ottolenghi, o in margine a relazioni di affari tra le rispettive famiglie. Testimonianze acquesi ricordano lui come colto e geniale, autore di ritrovati tecnici nel campo dei suoi commerci; le note su di lei la dicono libera di coltivare la scultura e le arti decorative, passione che la porta a studiare a Roma, frequentare artisti, esporre a Biennali e Triennali. Quella che vien fuori è una coppia che, per disponibilità economica, interessi artistici e inclinazione al bello, ricorda da vicino (e vicino abitavano, nel Monferrato) Riccardo Gualino e Cesarina Gurgo Salice. Ad Acqui, in località Monterosso, è stata di recente restaurata da nuovi proprietari villa Ottolenghi Wedekind, edificata a partire dagli anni Venti, vagheggiando il Parnaso e ospitando gli artisti con cui Arturo e Herta cercavano il dialogo (come lo scultore Arturo Martini). I due moriranno a poca distanza l’uno dall’altro, superati guerra e nazifascismo (climi non agevoli, per il loro matrimonio che mescolava un’“ariana” a un ebreo, per quanto battezzato); il loro sogno di marca rinascimentale verrà portato avanti dal figlio. Insomma: dietro al nome A.B. Ottolenghi, che ormai da 70 anni ha acquistato un forte legame anche con Alba, c’è una storia, fatta di tanti spaccati di mondo, che qui non si può che accennare.

Ma un ultimo dettaglio si può scoprire: inerpicandosi lungo la genealogia dei Wedekind zur Horst, saltando, nel primo Ottocento, su un ramo collaterale più “scomodo” (liberale, politicamente dissidente), alla fine si arriva, per cuginanza, al drammaturgo Frank Wedekind. Giocando il gioco dei gradi di separazione, siamo dunque autorizzati a partire da Alba, e arrivare al sorriso di Louise Brooks.

Edoardo Borra

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