L’appunto di Fenoglio sullo Stalag 17 e quel racconto da riscoprire

VERSO IL CENTENARIO In queste settimane, intorno alle celebrazioni del Giorno della memoria, abbiamo spesso riletto o riascoltato le parole «universo concentrazionario». Lo immaginiamo, questo universo, come un’architettura, fisica e psichica, totalizzante, che ha generato silenzi duramente bloccati così come durissime testimonianze dirette; e il tempo che passa e spegne le vive voci impone ormai di ricordare i ricordi, testimoniare le testimonianze. Di prima mano, lo sappiamo, è fuoriuscita dai lager anche una letteratura: memoriali, racconti, diari a opera di scrittori definiti (anche questo un portato di quell’universo) “della deportazione”. Esperienza, materia, tema: un processo di riconoscimento, come è stato, ad esempio, per gli scrittori “della Resistenza”. Spesso coetanei, o quasi, finiti in un virgolettato o nell’altro, in un diverso capitolo di manuale, in una collana editoriale specifica, a rischio di farci cadere nella compartimentazione merceologica, nelle più meccaniche delle collocazioni (si spera non a riposo). Ma i libri si possono spostare, sugli scaffali, e tornare contigui; e i coetanei affiancarsi, sfiorarsi.

Nello scrittore della Resistenza Beppe Fenoglio – classe 1922, prossimo al centenario – l’universo concentrazionario non è che a pochi passi: solo una serie di combinazioni ha fatto sì che l’allievo ufficiale Johnny (e il suo autore e coscritto), in avventurosa, dissestata fuga dopo l’8 settembre dalla caserma di Roma verso la casa di Alba, non finisse catturato e tradotto in Germania (e chissà se, nel migliore dei casi, in un altro virgolettato). Parleremmo di lui come di un Imi (Internato militare italiano)? E in quale campo di prigionia sarebbe finito, se mai ci fosse arrivato?

Ci torna in mente che galleggia, sul mare magnum delle carte lasciate da Fenoglio e riordinate dai suoi studiosi ed editori, un appunto dattiloscritto – un foglio volante, una minuzia – che annota in fretta, senza badare a errori di battitura, dettagli riferiti a due campi tedeschi per prigionieri di guerra. Dice questo: «Kaisersteinbruch, un grosso campo di smistamento. Stalag 17 A. Italiani e francesi, divisi da un reticolato. Russi cucinieri / Liesing. Baraccamenti con italiani, francesi, polacchi, russi, rumeni. Lavoravano in fabbrica a riparare i Messerschmitt / Ai primi di aprile. Il 26 agosto». Kaisersteinbruch e Liesing, località nei dintorni di Vienna, erano sede di stammlager (abbreviato nel più comune Stalag; mentre i Messerschmitt erano gli aerei da caccia tedeschi). Il testo, così ordinato, e con quei riferimenti temporali in calce (l’anno sarà stato certo il 1944), suona come una didascalia teatrale o cinematografica; e chissà che non si debba a questo suo aspetto, se il foglio si trova nella cartellina in cui i curatori fenogliani radunarono pagine e abbozzi di traduzione (anche dal teatro). D’altronde, un dramma teatrale (anzi: una «commedia melodrammatica» in tre atti) fu scritto nel dopoguerra da due aviatori americani ex internati (non nel campo A, nel B), Donald Bevan e Edmund Trzcinski. Lo intitolarono proprio Stalag 17, funzionò subito a Broadway e piacque a Billy Wilder, che lo portò al cinema nel 1953: funzionò nuovamente, e fece vincere a William Holden il suo solo Oscar. Chissà se Fenoglio l’avrà visto? Ci azzardiamo a dire che, nel caso, avrà trovato interessante quel suo protagonista poco oleografico, decisamente antiretorico.

La Maratona fenogliana sarà nel segno della donna

Le annotazioni di Fenoglio restano sospese, rinviandoci a un suo interesse, almeno per noi, segreto (e in uno scrittore fascinosamente segreto come Fenoglio, un segno qualsiasi è sufficiente per tenerci in sospeso anche più del dovuto). In questo gioco di connessioni, registriamo però almeno un albese, a nostra conoscenza, che con lo Stalag 17 A aveva avuto a che fare: Giuseppe Cagnasso (1906-1993), originario di Bossolasco, medico militare in servizio all’ospedale italiano di Atene. Dopo l’8 settembre, con molti altri soldati provenienti dalla Grecia e dal Mediterraneo, fu fatto prigioniero dai tedeschi e destinato alla rete di Stalag sparsi tra Austria, Ungheria, Cecoslovacchia. Il dottor Cagnasso, nel ricordo dei suoi famigliari, non amava riandare al suo periodo di internamento, se non per pochi accenni: uno, dall’effetto surreale, vuole che nel pullman su cui venne fatto salire per lasciare Atene, il dottore riconoscesse (lucidamente, non per un transfer sentimentale) la sua corriera di Bossolasco.

Una cartolina postale predisposta per la Kriegsgefangenenpost (la corrispondenza dei prigionieri di guerra) e da lui inviata alla «amatissima sposa» Maria Rosa Prandi, ci racconta che il giorno di Natale del 1944 Cagnasso (prigioniero numero 152280) si trovava nello Stalag 17 A, a Kaisersteinbruch. La sua karte, compilata a matita, è indirizzata alla sua casa di via Calissano 6: nel piccolo teatro albese, è giusto dalla parte opposta rispetto al duomo e all’abitazione, in piazza Rossetti 1, di Beppe Fenoglio. Che in quel Natale, in quel lungo inverno di sbandamento partigiano, era sulla Langa e avrebbe finito per scriverne pagine straordinarie.

Ma il segno più importante dell’universo concentrazionario, se si scorrono le carte (pubblicate) di Fenoglio, è naturalmente il racconto L’odore della morte. È uno dei meno citati, dei più trascurati, dei più belli: scritto tra i primi, diremmo tra le prime giovanili sue «chiacchierate drammatiche» pensate, con grande fervore e altrettanta disillusione, per Valentino Bompiani; e poi confluite nel 1952 nella raccolta I ventitre giorni della città di Alba, dove altri racconti, diventati esemplari, gli fanno ombra. Ingiustamente: ha delle qualità, dei tratti splendidamente visivi, sapientemente cinematografici (dal cartello iniziale alla folgorante immagine di chiusura), che se all’epoca potevano far storcere il naso per “impurità”, oggi li godiamo come perizia di messa in scena. Al protagonista Carlo piacerebbe trovarsi «specialmente a Hollywood», e la sua storia, ci viene di dire, sarebbe stata perfetta in mano a un Siodmak, a un Lang, maestri di noir e di psicologia. Rileggiamola: parla della lotta di Carlo con il tisico Attilio, «che era stato soldato in Grecia e poi prigioniero in Germania». Una lotta irrazionale, incontrollata, animalesca tra la vita e la morte, presente appunto come odore, fatto extracorporeo, invisibile.

Ci ha fatto piacere che proprio L’odore della morte sia stato compreso nel 2019 da Jhumpa Lahiri nella sua personale antologia di Racconti italiani edita da Guanda. Scrittrice inglese di origini bengalesi, profondamente attratta dalla nostra lingua e letteratura al punto da voler scrivere in italiano, Lahiri ha fatto scelte notevoli e inattese. Rimandiamo al lettore il piacere di scoprirle, notando soltanto (ultima coincidenza) come proprio Guanda sia stato l’editore che per primo antologizzò in volume, per le cure di Giacinto Spagnoletti, un racconto di Fenoglio. Era il 1958 e fu subito promosso Un giorno di fuoco: Fenoglio ne fu contento, ma nessuno badò a mandargli una copia del libro.

Edoardo Borra

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