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Assistenza domiciliare. Ho seguito mio padre, ma non tutto funziona

Anziani
Foto di repertorio

LA STORIA «Vorrei raccontare la mia storia per far emergere una realtà di cui si parla poco, perché altre persone possano trovare una strada più semplice rispetto a quella che ho dovuto percorrere con la mia famiglia»: così ha cominciato il suo racconto una lettrice di Gazzetta d’Alba, che ci ha contattati dopo aver letto un articolo su un’altra persona che, come lei, ha preso la decisione di seguire a casa un familiare anziano e malato. Da quando abbiamo trattato l’argomento, qualche settimana fa, abbiamo ricevuto molti messaggi di persone che sanno che cosa significa la parola “domiciliarità”, perché l’hanno vissuta sulla loro pelle tra mille difficoltà, soprattutto da quando è scoppiata la pandemia.

L’ultima che ci ha cercati vive in un paese nelle Langhe e per 19 anni ha assistito al progredire della malattia del padre, il Parkinson: «All’inizio camminava in modo più impacciato, si inciampava e s’incurvava, ma la diagnosi è stata certa fin dai primi sintomi. Poi, anno dopo anno, è peggiorato. Ma è rimasto sempre molto lucido, nonostante tutte le complicazioni che si sono aggiunte nel corso del tempo, anche per via dei tanti farmaci assunti». Proprio per la sua lucidità e per il suo desiderio di trascorrere la vecchiaia nel paesino d’origine, tutta la famiglia è stata d’accordo nel seguire l’uomo in casa, senza pensare nemmeno un momento all’inserimento in una casa di riposo. «Non abbiamo mai avuto alcun dubbio: il desiderio di mio padre era restare nei suoi luoghi. Così, tutti insieme, per fortuna, abbiamo deciso di offrigli la miglior assistenza possibile». L’uomo, che viveva da solo, una decina di anni fa ha iniziato ad avere bisogno di una badante. E, quando le sue condizioni sono peggiorate, le assistenti sono diventate due: «Una per il giorno e una per la notte, in modo da avere una copertura totale. Quando si parla di badanti, sembra tutto semplice, ma in realtà il familiare dev’essere sempre presente, per monitorare la situazione, organizzare i giorni di ferie e di riposo, capire se tutto funziona al meglio. Senza contare le volte in cui ci siamo trovati scoperti e abbiamo dovuto cercare di trovare il prima possibile una soluzione: è un impegno continuo, soprattutto per chi lavora, come me».

C’è poi la questione sanitaria, che con il Covid-19 si è complicata non poco: «Mio padre aveva bisogno di trasfusioni frequenti: ci siamo trovati a pagare un medico privatamente, fino a quando la situazione si è sbloccata». Ma non è solo una questione di costi, anche se ingenti: «A pesare è soprattutto il fatto di sentirsi soli, a lottare contro mille incombenze; potrei fare un elenco infinito di tutte le telefonate che abbiamo fatto per avere chiarimenti, di tutte le corse ad Alba o a Verduno per ogni necessità». Per fortuna, alcuni aspetti hanno funzionato molto bene, «come l’assistenza domiciliare integrata, quando mio padre ha avuto bisogno di assistenza infermieristica, così come il servizio dei medici delle Usca, le Unità speciali per il Covid-19, quando abbiamo avuto un problema di contagio».

Ora che l’uomo non c’è più, sua figlia si pone tante domande: «Avrò fatto abbastanza? A volte, quando racconto a qualcuno di quanto sia difficile seguire una persona anziana in casa, mi sono sentita spesso dire: “Voi lo fate, perché potete”. La verità è che non è stato facile, ma abbiamo deciso di andare avanti. Per ricordare mio padre, ho voluto raccontare la nostra storia, così da cercare di smuovere qualcosa per tutte le famiglie che si trovano nella nostra stessa situazione», conclude la donna.

Francesca Pinaffo

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