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Più che sceriffi di Voghera ci serve la concretezza della Sant’Egidio

Più che sceriffi di Voghera ci serve la concretezza della Sant’Egidio

EDITORIALE Prima o poi doveva o poteva succedere. Se uno gira armato per la città, con il colpo in canna e senza sicura, l’incidente è dietro l’angolo. Anzi, strano che non sia capitato prima. Non si tratta, però, di un semplice incidente. Quel che è avvenuto a Voghera, la settimana scorsa, è frutto di un clima culturale violento e armato, che viene da lontano. Coltivato a lungo. È l’attuazione di una concezione della giustizia “fai da te”, che si serve delle “ronde”, ignorando le forze istituzionali a ciò preposte, quali Carabinieri e Polizia. Da anni questa cultura della paura e dell’odio, soprattutto verso gli immigrati, ha diviso e avvelenato il Paese. Seminando germi di intolleranza, a volte di vera xenofobia, sfociati in più occasioni in tragedia.

I fatti sono noti. L’assessore leghista alla sicurezza del Comune di Voghera, Massimo Adriatici, già funzionario di Polizia, svolgeva in città compiti più da “sceriffo” che da politico e amministratore. Con l’intento di ripulire piazze e strade da barboni e immigrati. La memoria, per un momento, ci riporta indietro a Giancarlo Gentilini, il “sindaco sceriffo” di Treviso, noto per aver fatto togliere dai parchi le panchine usate dagli stranieri. E, soprattutto, per quella irresponsabile espressione: «Si potrebbe sparare agli immigrati come ai leprotti».

Ora saranno i giudici a decidere se nella colluttazione ‒ sfociata nella morte, per un colpo di pistola, di Youns El Boussetaoui, marocchino, pluripregiudicato e con due ordini di lasciare l’Italia ‒ l’assessore Adriatici abbia agito per legittima difesa o se si ravvisino altri reati. Una cosa è certa, e lascia perplessi: l’assessore non ha telefonato al 112 per soccorrere il giovane marocchino, ma al Commissariato di polizia.

Un immigrato molesto e violento, come nel caso di Voghera, non è soltanto un problema di ordine pubblico e di sicurezza. È, soprattutto, una questione umana e sociale. Di accoglienza, solidarietà e integrazione. Sul modello della Caritas, anche di quella vogherese, nei confronti di poveri e profughi, offrendo mense, alloggi e protezione. E supplendo a carenze istituzionali, in forza del principio di sussidiarietà tra pubblico e privato. Servizio non sempre riconosciuto dallo Stato.

Gli immigrati sono “scomodi”, inutile negarlo, ma se gestiti con umanità e civiltà sono una risorsa. Una grande risorsa. Indispensabili, oggi più che in passato, per risollevare le sorti del Paese. Dall’economia alla demografia. Il futuro dell’Italia è nella “convivialità delle differenze”, come diceva don Tonino Bello. O nella “fraternità e amicizia sociale”, come ci ricorda papa Francesco nella sua ultima enciclica Fratelli tutti.

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Ne abbiamo avuta una dimostrazione concreta con la Nazionale di calcio, vittoriosa ai recenti Campionati europei. Tutti abbiamo gioito per l’impresa dei giocatori. E abbiamo lodato lo spirito di gruppo, quasi di famiglia, che ha permesso loro di superare imprevisti e difficoltà. E non solo in campo. Una conquista sportiva, quella degli Azzurri, che ha unito e dato fiducia al Paese, dopo i lunghi mesi di pandemia e restrizioni. Nessuno, nell’euforia della vittoria, ha avuto da ridire sulla presenza nella nazionale di Roberto Mancini di tre “oriundi”, tre italo-brasiliani: Toloi, Jorginho ed Emerson. Qualcosa, ormai, di normale. Più del 10% dei giocatori del Campionato europeo è nato in un Paese diverso da quello per il quale gioca. Il calcio è sempre più globale e multietnico. Come lo è stata, in anni recenti, la Nazionale di calcio francese, campione d’Europa e del mondo grazie ai suoi “oriundi”. Lo stesso vale per le altre discipline sportive, dove i “nuovi italiani” rappresentano con successo l’Italia. La pallavolista nazionale Paola Egonu, un esempio tra tanti, è stata scelta dal Comitato olimpico internazionale come portabandiera alle Olimpiadi di Tokyo.

Ma perché quel che vale nello sport non si realizza anche in altre realtà del Paese? Perché c’è ancora tanta paura dello straniero, per lo più respinto e non accolto, sull’onda di pregiudizi e luoghi comuni? Non possiamo più assistere alle decine di migliaia di immigrati che “muoiono di speranza” nel vano tentativo di raggiungere le nostre coste, dopo essere fuggiti dall’inferno dei loro Paesi. Tra questi disperati moltissimi sono donne, bambini e pure neonati. Che noi definiamo “invasori” e respingiamo.

«Il Mediterraneo è divenuto il cimitero più grande d’Europa», ha detto papa Francesco all’Angelus del 13 giugno scorso. Sono più di 43mila i morti, senza contare i dispersi, dal 1990 a oggi. E più di 4mila dal giugno 2020. Denuncia rilanciata dal cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano: «Il Mare nostrum rischia di trasformarsi in un Mare mortuum». Così, di fronte al dramma delle migrazioni, fa naufragio anche la nostra civiltà.

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All’indifferenza per le sorti di chi viene respinto e riportato nei centri di detenzione in Libia, a subire nuove violenze e abusi, s’aggiunge la miopia di una politica nazionale ed europea, incapace di iniziative e soluzioni comuni e condivise. L’Unione europea, prona ai ricatti, paga miliardi di euro a Erdogan perché trattenga profughi e migranti, impedendo loro di varcare le frontiere turche verso l’Europa. L’Italia, allo stesso modo, il 15 luglio scorso ha rifinanziato la missione di cooperazione con la Guardia costiera libica. Un modo pilatesco per disinteressarsi del dramma degli immigrati. Sebbene trenta parlamentari, che hanno votato contro il finanziamento, abbiano scritto: «Continuare a sostenere direttamente e indirettamente la deportazione di uomini e donne e di bambini nei centri di detenzione in Libia, facendo finta che questa realtà non esista, configura nei fatti una violazione delle Convenzioni internazionali a tutela dei diritti umani».

Se l’Italia vuole ripartire, dopo la pandemia, occorre che affronti seriamente il tema immigrazione. Mettendo da parte ideologie, sovranismi e nazionalismi. Il Piano di ripresa (Pnrr) fatica a reperire personale in settori quali il turismo, l’agricoltura e la sanità, dove mancano migliaia di addetti e di infermieri. Paradossalmente, se non si inverte la tendenza, saremo costretti per necessità a supplicare l’arrivo degli immigrati.

La comunità di Sant’Egidio ha avanzato tre proposte al Governo Draghi per il futuro dell’Italia e dell’Europa: 1) ripristinare i flussi di ingresso regolari per favorire l’occupazione; 2) reintrodurre la sponsorship, permettendo a famiglie e imprese di chiamare lavoratori in Italia; 3) utilizzare e ampliare i corridoi umanitari per combattere l’immigrazione illegale. A questo riguardo, la comunità di Sant’Egidio assieme alla Cei e alle Chiese evangeliche hanno fatto arrivare in sicurezza 3mila rifugiati in Italia, garantendo loro casa e lavoro.

L’Italia invecchia sempre più, molti giovani scappano all’estero in cerca di futuro, la “tempesta demografica” depaupera il Paese di figli… non sarà il caso di superare le barriere ideologiche e approvare, una volta per tutte, lo ius soli o lo ius culturae, riconoscendo la cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia? Che, di fatto, sono già italiani. Ormai, purtroppo, non ne parla più nessuno. Un fuoco di paglia anche per chi ne aveva fatto una bandiera identitaria, come il Pd. Eppure, per gli effetti positivi che ne deriverebbero, sarebbe come vincere non il Campionato europeo, ma quello del mondo. E converrebbe a tutti integrare gli immigrati. Più a noi che a loro.

Antonio Sciortino,
già direttore di Famiglia Cristiana e attualmente di Vita Pastorale

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