Vito Mancuso al Sociale per Profondo umano festival

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ALBA È nata la prima edizione del festival culturale Profondo umano. Dal 18 al 30 settembre ad Alba, il programma prevede una serie di giornate accomunate dal titolo: “Errare è umano?”, con ospiti come il filosofo Vito Mancuso (sabato 18 settembre, ore 18), la teologa Antonietta Potente (martedì 21 settembre, ore 21), il fondatore della comunità di Bose Enzo Bianchi (martedì 28 settembre, 0re 21), e la farmacologa, biologa e accademica Elena Cattaneo (giovedì 30 settembre, ore 21). Tutti gli incontri si svolgeranno nel teatro Sociale, tranne lo spettacolo teatrale dello psichiatra Luciano Fico, nella chiesa della Natività di Maria a Mussotto il 25 settembre alle 21 (posti esauriti). A organizzare il festival è l’associazione Intonando con il sostegno del Comune, della diocesi e di Banca d’Alba.

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Vito Mancuso al Sociale per Profondo umano festival

Ad aprire il cartellone degli incontri è stato  Vito Mancuso che nel suo intervento dal titolo Errare è peccare?  ha ripercorso il cammino dell’uomo tracciato dalla Genesi con il suo primo atto autonomo che è un errore: il peccato originale apre la storia condannando l’umanità a ereditare il peso di quella scelta sbagliata. «Peccare, per quanto sia sempre un errore, può rivelarsi un errore produttivo. Anzi, talora persino necessario», ha spiegato. «Perché ci sia vita spirituale la mente necessita soprattutto di una scintilla che l’accenda e di essere trattata come libertà, libertà responsabile. Si dà vita spirituale quando questa libertà non viene vissuta come arbitrio ma come impulso alla ricerca e all’amore ardente per la verità».

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L’INTERVISTA Antonietta Potente, teologa e religiosa che vive a Torino e relatrice dell’incontro di martedì 21 settembre, ore 21, è descritta dal presidente di Intonando, Francesco Cordero: «Ha vissuto in Bolivia per quasi vent’anni e quei luoghi sono diventati per lei un’intensa ispirazione. Le fonti principali del suo pensiero sono le scritture ebraico-cristiane, il pensiero filosofico e teologico sapienziale – soprattutto quello delle donne – le culture ancestrali, la vita e la realtà più semplici e quotidiane».

Antonietta Potente, è importante parlare dell’errore in una società che sembra punire o discriminare qualsiasi fragilità e deviazione?

«Non si fa memoria dell’errore per condannare e puntare il dito, ma per ricordare quanto ogni viaggio umano interiore ed esteriore sia percorso nella fragilità, nel dubbio e dunque nella ricerca. Gli errori, quasi sempre, sono frutto di automatismi, questo è vero anche nel campo tecnico. Chi crede di riuscire a definire l’errore e dunque a legiferare con certezza chiude la ricerca e, soprattutto, la possibilità. “Io vivo nella possibilità”, scriveva Emily Dickinson. Chi pensa di non essere nella precarietà dei processi di crescita chiude ogni possibilità, non vive la profondità delle relazioni, sia con i propri simili che con ogni essere vivente. Le relazioni insieme all’eloquenza della vita con i suoi accadimenti, accolte nell’ascolto e nel silenzio, ci indicano in modo amorevole l’errore».

La pandemia da Covid-19 sembra aver trasformato ogni cosa.

«Non ne sono tanto convinta: il Covid-19 ha per lungo tempo minacciato lo stile di vita a cui eravamo abituati, esaltando le due facce più eloquenti del sistema-mondo in cui siamo volutamente o no inseriti: la tecnica e la scienza. Direi che il Covid-19 ha realizzato in modo perfetto le nozze tra potere finanziario, tecnologia e scienza. La vita quotidiana, in modo più o meno intenso, è sottomessa a queste tre coordinate di potere. Cosa ci resta? La vita. Bisognerà ricostruire luoghi d’incontro, inventarne altri, in cui possano esprimersi saperi che rimangono quasi sempre folklorici o comunque ignorati. È il tempo dell’eleganza dello spirito: della poesia, dell’arte, dello sguardo e della parola necessaria. È tempo dei ritmi più lenti insegnati dalla natura; tempo in cui c’è chiesto di imparare di nuovo a vivere».

Come sta vivendo questo periodo di trasformazione da un punto di vista spirituale?

«Più invecchio e più sento che la vita ha una sua particolare dimensione di profondità. Dico la vita per dire tutto ciò che mi circonda: le persone, gli animali, i fenomeni della natura, le cose che traggono con sé il tempo, i suoni emessi dagli strumenti, cioè la musica e la parola necessaria, cioè la poesia. Questa profondità per me è il mistero; ciò che sta prima di tutto. Il nome dato a questo mistero, cioè Dio, mi sembra davvero insufficiente, così come ogni altro nome. Percepisco la Divina Presenza, quella che in ebraico si chiamerebbe la Shekinah. E guarda caso è il pensare insieme ad altre donne che mi aiuta in questo momento e mi fa sentire questo mondo abitato dal di dentro ma quasi sempre ignorato, etichettato con frasi fatte, con certezze. In questo momento detesto tutti gli universali, concetti-parole come pace, giustizia, solidarietà. Le abbiamo pronunciate troppe volte pensando che fossero magiche e che al pronunciarle si sarebbe realizzato l’incantesimo. In realtà questi concetti se non hanno un’anima corporea non hanno forza, servono solo a sostenere ideologie, anche quelle religiose. Allora penso alla lingua più quotidiana, quella delle parole dell’esperienza di tante donne e uomini che mi hanno insegnato la vita con la loro consapevolezza, i loro detti e proverbi. Delle Scritture amo sempre di più le parti poetiche e profetiche. I Vangeli li ascolto in silenzio come una fiaba».

m.v.

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