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Incontri tra le righe: intervista con Nicola Lagioia

Incontri tra le righe: intervista con Nicola Lagioia

SANTO STEFANO BELBO Vincitore del premio internazionale Bottari Lattes Grinzane, Nicola Lagioia ha nuovamente presentato, lo scorso sabato 9 ottobre, il suo romanzo La città dei vivi (Einaudi) nella suggestiva cornice della Cascina delle Rocche, sulla collina di Moncucco immortalata da Cesare Pavese nella poesia I mari del Sud. L’evento, organizzato dalla biblioteca civica di Santo Stefano Belbo per la rassegna “Tra le righe. Incontri con l’autore”, ha visto una buona affluenza di pubblico, accorso per ascoltare lo scrittore barese dialogare con Pierluigi Vaccaneo, direttore della fondazione, e Daniela Bussi, referente della biblioteca, sull’omicidio di Luca Varani, a opera di Marco Prato e Manuel Foffo, che nel 2016 sconvolse l’opinione pubblica per l’assenza di un movente e che è stata la base del suo romanzo. È stata l’occasione di fargli qualche domanda sulla sua ultima opera e sull’importanza di Pavese per la sua carriera artistica.

Nicola, partiamo dal suo romanzo: che cosa può dire la letteratura partendo da un fatto di cronaca così scottante come l’omicidio Varani?

«I giornali per forza di cose, non per loro colpa, devono raccontare i fatti non appena accadono, non hanno il tempo di fare una ricerca lunga e profonda che spetta alla letteratura, anche quando si occupa di cronaca. Per i giornali è importante il cosa, per la letteratura è importante il perché. La strategia retorica della letteratura non risponde attraverso risposte definitive che risulterebbero inevitabilmente sbagliate, ma sollevando, si spera, le domande giuste».

Durante l’incontro ha citato Darwin parlando della violenza che il caso ha messo in luce. Pensa che la società di oggi possa ancora esser letta con una chiave darwiniana?

«Ho parlato di Darwin non con i migliori auspici. Siamo ritornati per alcuni versi all’idea che vince il più forte e che l’istinto di prevaricazione e di sopraffazione ha cittadinanza anche in un contesto dove invece la civiltà dovrebbe essere l’emancipazione di tutto questo. La civilizzazione è l’abolizione della legge del più violento, ma è simile però ad uno strato di ghiaccio molto sottile, sotto cui è facile cadere. Dire quindi che siamo in un’epoca in cui vince Darwin, facendo una gara tra filosofi e studiosi, rispetto ad altri che erano i maestri del sospetto del Novecento, che io amavo, vuol dire che siamo in un’epoca abbastanza complicata».

Che cosa ha invece rappresentato per la sua carriera lo scrittore santostefanese?

«C’è proprio un periodo preciso per raccontare il mio Pavese: mi ero appena laureato e con un mio amico, Andrea Piva, che è diventato anche lui uno scrittore molto valente, ci siamo trasferiti a Milano in un orrendo appartamento per seguire un corso in tecniche editoriali. È stata un po’ la nostra bohème in cui ci manteneva in vita l’Amaro lucano, che consumavamo in quantità industriali, e Lavorare stanca di Pavese che non so quante volte ci siamo letti, tanto che a un certo punto ci parlavamo per versi. Poi ovviamente prima e dopo mi sono letto gli altri libri, ma quel libro mi ha salvato la vita nel terribile periodo milanese».

Ci sono altri aneddoti del periodo, sempre sulle letture pavesiane?

Mi ricordo anche di una volta in cui stavamo rileggendo, oltre a Lavorare stanca, Moby Dick. Una sera, quando eravamo ancora giovani e forse entrambi sfidanzati, arrivano delle ragazze a casa, che invitiamo a cena e a un certo punto bisognava concludere. Invece le cacciammo perché volevamo finire di leggere le poesie di Lavorare stanca: eravamo proprio fuori all’epoca. Queste ragazze erano sorprese e scandalizzate per esser state messe alla porta, da Melville e da Pavese».

Perché allora si dovrebbe rileggere un classico come Pavese?

«Per salvarci la vita, come l’ha salvata a me e a noi quando eravamo giovani, come del resto tutta la grande letteratura. Come direbbe Giuseppe Montesano, si legge per mantenersi o per diventare vivi».

Se dovessi consigliarne un’opera?

«La raccolta di poesie Lavorare stanca è stato il mio grande amore, però per la prosa, visto che ne ho curato la prefazione e l’ho riletto con molta attenzione di recente, dico Tra donne sole, che fa parte del trittico La bella estate».

Lorenzo Germano

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