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Speciale Alberione: l’intervista ad Andrea Riccardi

ALBA Andrea Riccardi, nato a Roma nel 1950, è stato docente universitario di storia contemporanea. Nel 1968 ha fondato la comunità di Sant’Egidio, prendendo ispirazione dal clima di rinnovamento successivo al concilio Vaticano II. Nel 2011 Mario Monti, lo volle nel suo esecutivo, nominandolo ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione e gli affidò le deleghe alla famiglia e alle pari opportunità. Venerdì 26 novembre, alle 17.30, Riccardi, insieme a don Giusto Truglia, aprirà, al palaAlba di piazza San Paolo, le celebrazioni dedicate ai cinquant’anni dalla morte del beato nato nel 1884 a San Lorenzo di Fossano. Riccardi farà un intervento su “Don Alberione e il contesto ecclesiale del Novecento”.

L’ingresso è gratuito, ma occorre prenotarsi al più presto sul sito di Alba capitale: alba2021.confindustriacuneo.it alla sezione Eventi.

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La locandina degli appuntamenti dedicati alla memoria del beato Giacomo Alberione

Riccardi, come si può inquadrare la figura di Alberione nel contesto storico?

«Nato alle soglie del Novecento, il sacerdote è stato, a tutti gli effetti, un uomo del Ventesimo secolo. Nella storia della Chiesa, la sua figura rappresenta il primo momento di consapevolezza dell’avvio di un’epoca nuova. Il titolo scelto per le celebrazioni albesi, Giacomo Alberione imprenditore di Dio, è molto indicato per esprimerlo: il centro della sua vita è stata la fede, comunicata ai discepoli attraverso molti esercizi spirituali e alla gente, con i nuovi mezzi di comunicazione. Ha accettato, quindi, gli strumenti in uso nel nuovo secolo e li ha valorizzati, insieme ai compagni preti che, con la tuta, hanno lavorato per costruire una struttura popolare cattolica. Inizia dalla Gazzetta d’Alba, affidatagli dal vescovo, per proseguire con le restanti pubblicazioni paoline, attraverso cui la fede non è solo venduta ma propagandata».

Che cosa farebbe oggi don Alberione?

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Andrea Riccardi

«Non credo si possano trarre, in autonomia, lezioni sul futuro. Alberione fu un uomo del presente, toccato fortemente da un interrogativo al quale la Chiesa dovette rispondere: “Adattarsi o no?”. Il fondatore della Famiglia paolina mai accettò il modernismo come contenuto della fede, ma capì che la Chiesa non poteva restare chiusa in sacrestia. Trasformò, dunque, le tipografie in sacrestie e andò a bussare di porta in porta per portare il messaggio cattolico. Fu un uomo del suo tempo, dall’aspetto, anche fisico, un po’ antico ma allo stesso tempo moderno».

Quali difficoltà incontrò, nella sua opera?

«Gli ostacoli furono molti: problemi nella sua diocesi, ai quali rispose con un misto di obbedienza e continuo lavoro per cercare la sua strada. Trovò comunque sempre appoggio nei papi: Leone XIII, Pio X e Benedetto XV gli aprirono il cammino. Paolo VI, poi, nutriva una grande considerazione nei suoi confronti. Lo andò a trovare in punto di morte: a quei tempi, un evento pressoché unico».

Che messaggio ci ha lasciato in eredità?

«L’eredità spirituale va trattata a parte: fu un comunicatore della fede. Come ha dimostrato per il Novecento, san Paolo può e deve continuare a vivere anche nel Duemila. Sul piano umano e storico, invece, Alberione, vissuto tra due guerre mondiali, fu un uomo di pace e universalità. Credo abbia incarnato un sogno e, come dice papa Francesco, senza sogni la Chiesa non vive».

Davide Barile

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