I segreti della tartufaia Roberto Ponzio

RICERCHE A Roberto Ponzio sarà intitolata una tartufaia di Piobesi, grande circa ottomila metri quadrati e di proprietà di Tartuflanghe: dotata di pannelli dedicati alle specie arboree e fungine, alle piante comari (che aiutano lo sviluppo dei tartufi) e a quelle antagoniste del tuber, oltre ad altre curiosità, non si tratta del primo terreno a essere dedicato alla memoria del re dei tartufi di Alba (1923-2008).

Una frase del re dei tartufi di Alba è diventata un motto che ora campeggia nel museo a lui consacrato: «No alberi, no tartufo». Come ricorda il figlio, l’avvocato Roberto Ponzio, «mio padre, già negli anni Sessanta, si spese per la preservazione dei boschi e dell’ambiente. Non c’era la sensibilità di oggi, ma se fossero state seguite le sue indicazioni, forse, ci troveremmo in una situazione diversa».

I segreti della tartufaia Roberto Ponzio
Roberto Ponzio (1923-2008) con due notevoli esemplari di tartufo.

Un’altra battaglia di Ponzio riguardava «l’origine dei tartufi bianchi: era l’unico a commerciare esclusivamente prodotti locali, anche come segno di rispetto nei confronti dei cercatori». L’intitolazione si terrà sabato 14 maggio alle 10.30. Enrico Vidale, docente di economia ed estimo all’Università di Padova, illustrerà le caratteristiche dell’impianto, sul quale da una decina d’anni sono in corso ricerche scientifiche. Alle 12.15 inizierà l’incontro “Quale futuro nella produzione di tartufo nelle Langhe, Roero e Monferrato?”. Interverranno, oltre a Vidale, Nicola Andrighetto, ricercatore in economia e gestione forestale all’Università di Padova, il naturalista albese Edmondo Bonelli e il fiscalista Luigi Scappini. Per partecipare occorre scrivere a visit@tartuflanghe.com o telefonare allo 0173-36.14.14.

Paolo Montanaro, titolare di Tartuflanghe, spiega: «La tartufaia in questione è divisa in due parti: in una si produce tuber aestivum, nell’altra il tuber magnatum Pico. I miei genitori circa trent’anni fa avevano impiantato alberi micorrizzati con il nero, mentre il bianco, in quella porzione di bosco, cresceva già». L’incontro con Vidale lo ha portato a una considerazione che si rivelerà fondamentale: «Per essere venduti e trasformati, i tartufi vanno lavati: abbiamo impianti che consumano centinaia di litri d’acqua. Analizzando le acque reflue, Vidale ha notato che erano piene di spore: di conseguenza, abbiamo iniziato a usarle per irrigare. I risultati sono stati sorprendenti: la tartufaia, che stava subendo un calo di produzione, si è riattivata completamente. Prossimamente posizioneremo una capannina meteorologica per avere dati certi sull’andamento climatico e agire di conseguenza. Ogni pianta, poi, è stata catalogata: sappiamo altezza, diametro e superficie fogliare di tutte. E il terreno è stato analizzato per conoscere la concentrazione di spore delle varie specie di tartufo».

Il metodo è applicabile anche ad altri terreni vocati alla tartuficoltura, «che nelle nostre zone sono la maggior parte: intervenendo andiamo, semplicemente, ad aumentare la presenza di spore». La cura della tartufaia impone di seguire alcuni lavori agricoli: taglio dell’erba, rimozione di alcune piante, irrigazione, erpicatura primaverile, piccole potature e inoculi di spore. «Con il taglio di alcuni rami l’albero emette nuove radichette, ideali per la formazione di micorrize: le spore si attaccano e nasce questa simbiosi. Per l’irrigazione utilizziamo l’acqua di lavaggio, così come per l’inoculo sporale: lo si realizza scavando, tagliando le radici e depositando la soluzione a contatto».

Tartuflanghe, attraverso Pedemontis, è attiva da anni nel recupero e nell’impianto di tartufaie. «L’intenzione è creare una filiera del tartufo, dalla coltivazione alla commercializzazione, coinvolgendo altri agricoltori. Vogliamo anche produrre, partendo da nocciole e ghiande, piante micorrizzate di tuber magnatum Pico».

Enrico Vidale aggiunge che, rispetto alle ricerche francesi condotte da Claude Murat, il metodo sviluppato di inoculo sporale «permette un notevole risparmio: se una tartufaia con piante micorrizzate costa anche 80mila euro l’ettaro, con il nostro modello l’investimento è compreso tra gli ottomila e i diciottomila euro. E le possibilità di produrre arrivano al 90 per cento: tutto sta nella preventiva analisi del terreno. Altri dettagli sono coperti da segreto industriale. Le ricerche sono state possibili grazie a Tartuflanghe. Non è scontato, monitorare le tartufaie è difficile: in caso di successo, i tartuficoltori in genere diventano irreperibili».

Saranno approfondite anche la fiscalità e la commercializzazione del tartufo. Montanaro in qualità di presidente di Tartufok ha partecipato ai tavoli ministeriali grazie ai quali l’Iva è scesa dal 22 al 5 per cento. E insiste sull’esigenza di differenziare il tuber magnatum Pico a seconda del luogo d’origine: «Non per ogni Comune, ma usando la denominazione bianco d’Alba per l’area dalle Langhe al Monferrato. Alla Fiera di Alba si potrà vendere il tartufo dei Balcani o altre zone per quello che è, senza farlo passare per nostrano».

Davide Barile

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