L’INTERVISTA Dallo scorso maggio il consorzio di tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani ha un nuovo presidente, Sergio Germano. Produttore di lungo corso a Serralunga, dove ha ereditato l’azienda di famiglia, Ettore Germano, che conduce con la moglie Elena e i figli Elia e Maria. Il viticoltore, classe 1965, ha preso il posto di Matteo Ascheri dopo diversi anni da consigliere. Parliamo del suo mandato e di alcune delle sfide del mondo del vino.
Germano, dopo la bocciatura della proposta di spostare i vigneti di Nebbiolo, per la produzione di Barolo e Barbaresco, nei versanti collinari esposti al Nord, avete intrapreso altre azioni?
«Bisogna precisare che si tratta di una presa di coscienza per non essere arrivati al quorum nel procedimento di raccolta firme. Il cambiamento climatico si può affrontare in tanti modi, premesso che la natura è sovrana e va interpretata. I vigneti esposti a Nord sono un’opportunità, ma poi ci sono tutti gli altri versanti storici per i quali bisogna comunque trovare soluzioni: forse sono loro i protagonisti principali da difendere. Noi stiamo lavorando sulla ricerca, anche con fondi pubblici, non solo legata alla carenza idrica, ma anche alla protezione dalla radiazione solare: ci sono prodotti che tendono a schiarire, quindi a proteggere, che vanno distribuiti come le argille e ci sono anche le reti con effetti ombreggianti. Infine abbiamo una maggior sensibilità ai parassiti e alle fisiopatie; di conseguenza, come Consorzio, vogliamo implementare una serie di iniziative per selezionare cloni resistenti, con l’obiettivo di mantenere i nostri vitigni, perché altrimenti perdiamo la personalità del nostro territorio. Stiamo facendo studi anche sulla flavescenza dorata, altro problema sempre più manifesto, per vedere come osteggiarla con efficacia».
L’alta Langa offre un rimedio ai cambiamenti climatici?
«Quando si sale in quota, si guadagna in escursione termica, si riducono i picchi, ma le denominazioni hanno aree ben delimitate da cui non si può uscire. Tecnicamente si potrebbe provare, ma penso sia importante andare avanti con la sperimentazione. L’alta Langa, come zona geografica, è una terra a vocazione di vini freschi e più leggeri, perché costituita in larga parte da pietre, mentre la bassa è più calcarea. Non si può perciò pensare di sostituire i prodotti che si fanno in un certo tipo di terreno soltanto spostandosi»
Il Dolcetto può tornare a essere un vino «da quotidianità di livello elevato»
Cosa pensa dei prezzi praticati?
«Bisogna prendere atto che viviamo un po’ nelle mode. Quando vediamo che certe zone europee cominciano a estirpare vigneti, viene quasi spontaneo dire che c’è troppo vino, ma non è così. Abbiamo la fortuna di avere prodotti unici: i vini a base Nebbiolo del basso Piemonte arrivano da superfici ridotte con produzioni che non sono così alte. Mi auguro che i nostri produttori abbiano tutti l’obiettivo di continuare a essere orgogliosi del loro lavoro e di mantenere fermi i prezzi. Per il momento grossi crolli non ci sono, l’imbottigliamento è stabile, poi lo sfuso ha sempre avuto un andamento stagionale: da fine luglio alla vendemmia è normale una stasi. Dobbiamo restare forti e non farci traviare dalle notizie globali».
È possibile rilanciare il Dolcetto?
«È importante essere coesi nella promozione di questo vitigno. Purtroppo è stato una grande fortuna per la zona 30 o 40 anni fa perché si beveva quotidianamente, poi è esploso il Nebbiolo, anche perché nel breve è parimenti o più facile da coltivare, con prodotti che idealmente si conservano di più. Ma innanzitutto ci devono credere i produttori: la sua forza è il nome, anche se per certi anni è stato un tallone d’Achille. Se riusciamo trarre un’opportunità da una situazione, può essere un modo nuovo di rilanciare questo vino, che deve avere dignità come altri “vitigni minori”, anche se non mi piace questa definizione. Produrre vini a base Dolcetto da quotidianità di livello elevato può essere remunerativo per il produttore e avvicinabile per il consumatore».
Cosa ne pensa delle manifestazioni albesi legate al vino?
«Credo che siano importanti e vadano fatte, tenendo presente la personalità e la tipologia dei prodotti che abbiamo da offrire. Devono essere avvicinabili al pubblico e proposti in un’ambientazione giusta e variegata che permetta di assaggiarli nelle migliori condizioni, visto che le occasioni per berli i consumatori se le creano già da soli a casa».
«La cosa migliore è fare squadra, trattare bene chi lavora»
Qual è la vostra posizione sul caporalato? Che cosa è stato fatto in questi mesi?
«In questo momento siamo un po’ vittime di questo fenomeno, la zona è stata etichettata in estate per un evento che si è verificato una sola volta, di cui non sappiamo nemmeno con precisione il luogo. Non è ancora stato giudicato, per cui noi, come Consorzio, siamo dispiaciuti e vogliamo essere collaborativi con i lavoratori, e ci siamo anche costituiti parte civile nel processo. La cosa migliore è fare squadra, trattare bene chi lavora, che a sua volta deve impegnarsi in professionalità, questo è l’obiettivo: abbiamo bisogno di manodopera specializzata. L’etica del lavoro deve essere uno dei fondamenti della nostra filosofia produttiva. Se si verificano degli episodi scorretti, operati da persone che non sono neanche produttori, a volte poco attenti per superficialità o per disattenzione, noi condanniamo e osteggiamo gli sfruttatori o gli speculatori. Per dare un segnale, quest’estate abbiamo lavorato molto, esortando i soci a fare attenzione alle proprie collaborazioni: nel caso vedano situazioni strane devono stare alla larga e denunciare. Poi siamo capofila nel progetto del protocollo di sensibilizzazione con la Prefettura e molti Comuni della zona: loro hanno il polso della situazione, sanno se ci sono persone che vivono in situazioni precarie o non hanno locazioni abitative idonee. Siamo anche partner della cooperativa Weeco, con cui abbiamo creato l’Accademia della vigna per dare suggello al discorso di filiera, formazione e sistemazione etica. Purtroppo lavorare in agricoltura non affascina tutti perché, parlando con questa cooperativa sociale, su 160 persone che hanno fatto il colloquio soltanto 24 hanno accettato il lavoro, ma questo è un altro discorso, legato all’appetibilità di questo mondo. L’etica del lavoro rimane un punto fermo e fondamentale».
Lorenzo Germano