
La Ferrero aveva già fatto i conti con la violenza dell’acqua, durante l’alluvione del 1948. Lo scenario, ancora più catastrofico, si ripeté nel 1994. A salvare la fabbrica dal fango furono i dipendenti, armati di stivali e badili.
Tra i testimoni diretti del periodo c’è Vincenzo Sibilla, all’epoca capo dello stabilimento albese. Torinese, classe 1947, entrò in azienda nel 1983: «Pur nella disgrazia, vivemmo un momento di entusiasmo», ricorda. «Altre realtà non avevano fretta di ricominciare, mentre noi, con l’approssimarsi della campagna per il Natale, volevamo ripartire il prima possibile».
La cronaca dell’alluvione inizia dal mattino di sabato 5 novembre: «Pioveva incessantemente, ma non a dirotto. L’unico a essere preoccupato era Michele Ferrero: disse che lo scenario gli ricordava il 1948. Come ogni sabato, al mattino andavo in ufficio e tornavo a casa all’ora di pranzo. Feci lo stesso. Ma, il pomeriggio, dissi a mia moglie che sarei andato a fare un giro veloce in fabbrica. La situazione iniziava a essere evidente: visto che continuava a piovere, ordinai di fermare gli impianti e di mettersi a fare le pulizie. Dalla Langa, ci arrivavano già notizie di frane». Poi, anche ad Alba, il disastro: «Ero dall’isola modellati e, una volta uscito, vidi un fiume di pedane che galleggiavano. I pullman degli operai arrivarono comunque».
Alla sera del sabato, il primo corso d’acqua a strabordare fu il Talloria: «Erano circa le 19. Avevamo l’acqua alla cintola e, con i colleghi, dovevamo sorreggerci a vicenda. I tombini erano saltati. Passai la notte in ufficio. Chiesi agli operai, anche con fare deciso, di non uscire: rischiavano di essere travolti dalla furia della corrente. Il Tanaro esondò intorno a mezzanotte: riuscimmo ad abbandonare lo stabilimento soltanto alle 10 del mattino. Lo scenario era apocalittico: lungo la strada verso il magazzino, c’erano cumuli di pedane, due tir erano finiti di traverso. Pure la mia automobile era sotto tre metri di fango. Le sorpresine Kinder furono trovate persino nell’Adriatico».
Dopo il disastro, si fece sentire da subito il desiderio di ripartire, come una spinta dall’interno. «Il ripristino iniziò già al lunedì: in segreteria si presentarono molti dipendenti e chiedemmo, a chi avesse voluto, di portare giacca, stivali e pala per togliere il fango. In tutta sincerità, non sapevamo bene come comportarci: tutto era stato sommerso ed erano saltati gli allacciamenti».
La meraviglia fu che quasi tutti risposero all’appello: «Dieci giorni dopo, accendemmo la prima caldaia. In quindici giorni, dopo aver pulito, sanificato e riparato i guasti, ripristinammo una linea dei Rocher. E, progressivamente, ripartirono le altre».
A infondere coraggio ai lavoratori, come ricorda Sibilla, fu Pietro Ferrero: «Salito su un camioncino nel piazzale interno, tenne un discorso in cui rassicurò tutti sul fatto che la fabbrica sarebbe ripartita. Ad aprile, organizzammo una festa e premiammo, con una targa, i dipendenti che ci avevano aiutato».
In seguito, per mettere al sicuro lo stabilimento, fu costruito un alto muro di cinta: «Lo abbiamo soprannominato “le mura di Gerico”, all’interno dell’azienda».
Un altro testimone di quei giorni è Franco Foglino, all’epoca responsabile del controllo di gestione dell’azienda: «Al pomeriggio del sabato, percepii alcuni movimenti, ma senza capire la gravità della situazione. Destò sospetti la presenza di un elicottero sopra allo stabilimento: era Michele Ferrero che, dall’alto, aveva già intuito tutto e voleva monitorare. Pur conscio del disastro, non immaginavo uno scenario come quello che vidi al lunedì. Dopo lo sbigottimento, ognuno si incaricò di fare qualcosa nell’ambito in cui lavorava. Mai avrei immaginato una ripresa così veloce: ci siamo trovati tutti uniti, in uno sforzo comune. Dal dramma, è nato un simbolo di ricostruzione».
Alla fondazione anche i pensionati scesero in campo
Beppe Pansi, classe 1960, è stato fino all’anno scorso uno dei dipendenti della fondazione Ferrero e anche responsabile del gruppo sportivo aziendale. La sua testimonianza riguarda proprio ciò che accadde
in strada di Mezzo: «Per sabato 5 novembre 1994, avevo organizzato una festa di inizio autunno con musica, danze e 350 invitati», esordisce.
«Il padiglione era già del tutto montato, ma l’acqua saliva e il segretario Augusto Martini, che aveva molta più esperienza di me, mi consigliò di annullare tutto. In effetti, mentre tornavo a casa mia in Valle Belbo, vidi tutto allagato». Il livello delle acque arrivò, dentro la fondazione, all’altezza del bancone del bar: «Sempre Martini, al lunedì, mi disse che dovevamo cercare di andare avanti. Però, alla fondazione, c’era più nulla. Eravamo consci del fatto che, com’era corretto, la priorità di tutti sarebbe stato lo stabilimento. Dovevamo arrangiarci da soli. Così contattai alcuni pensionati: almeno una cinquantina risposero. Con la mia Ypsilon, andai a prendere badili e carrette. Li trovai in una ferramenta a Ricca, perché ad Alba era materiale introvabile».
La macchina degli aiuti iniziò a muoversi: «Prima arrivò un gruppo della Protezione civile toscana ad aiutarci, con le idrovore, a liberare i locali interrati». Pansi ricorda anche i giorni seguenti: «Passato il peggio, andai di persona a saldare i conti aperti. Tutti quanti furono molto comprensivi. Ho conservato le ricevute fino all’anno scorso: mi dispiaceva buttarle. Il fango rese irrecuperabili molti documenti, ma il mio libretto di lavoro, con i segni molto evidenti della grande alluvione, riuscirono a recuperarlo alla fine».
Davide Barile
