
ALBA «Basta razzismo, siamo tutti uguali. Nessuno deve morire così»: la voce nel megafono alla fine del corteo è di alcuni giovani di origine africana, ma nel grande gruppo che ha attraversato le vie del centro c’è una comunità ampia, di ogni provenienza. Molti i cittadini albesi e non, uomini e donne, giovani e anziani. Tante le persone che marciano il 15 dicembre per gridare la rabbia verso le istituzioni e verso una società iniqua. Verso un funzionamento politico, una macchina decisionale e un pensiero dominante che producono disuguaglianza e marginalità. Si manifesta per ricordare Issa Loum e Mamadou Saliou Diallo, i due giovani morti per asfissia in un casolare ad Alba nel tentativo di proteggersi dal freddo. Come loro, almeno 30 persone secondo le stime delle istituzioni ogni giorno in città devono affrontare l’inverno senza un tetto, senza riscaldamento, esponendo se stesse a oggettivi pericoli. Il ragazzo nel megafono aggiunge: «Qui il lavoro c’è, ma è la casa ad essere più importante. Non si può morire di freddo».
Il senso che si avverte nel corteo è quello del limite. È il superamento di una soglia, che si manifesta con sentimenti di costernazione, rabbia, sgomento. Il limite sorpassato è quello della vita, di due corpi che si spezzano a causa di una comunità che non ha saputo proteggerli. «La morte dei due giovani non era del tutto imprevista, potevamo aspettarcelo, è da anni che chiediamo alle istituzioni di intervenire ma nonostante i proclami e gli slogan non è stata trovata nessuna soluzione», dice una ragazza. «Eppure, quando ho saputo la notizia di Issa e Djoulde – non li conoscevo di persona, ma poco importa – qualcosa dentro di me si è spezzato. Ho pensato: allora non si tratta di un fantasma, di un’ipotesi, di un pensiero. La morte esiste davvero ed è qua, vicino a noi. Non è un incidente, ma l’esito di una lunga catena di discriminazioni, prevaricazioni e indifferenza».
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Il corteo parte dalla Zona H, luogo simbolico perché ritrovo quotidiano di molte comunità, di migranti, di cittadini impegnati nel sociale che provano a cambiare le cose. I destinatari della protesta sono tutte quelle persone che in qualche modo detengono il potere decisionale o economico. Dice un manifestante di circa 40 anni: «Non servono le strutture di accoglienza o l’elemosina, dobbiamo dare case e dignità alle persone che arrivano qua per lavorare».
Intanto, a pochi metri in piazza del Duomo un altro presidio si batte per le medesime cause. Il gruppo propone una raccolta firme dal titolo “Casa e dignità”. Si chiede all’amministrazione comunale l’apertura di docce pubbliche e di un deposito bagagli per i senza dimora, il riconoscimento della residenza virtuale per chi non ha una casa, l’apertura di una struttura di accoglienza, l’aumento degli alloggi a canone sociale. I turisti si fermano. Uno dice: «Non sapevo che ad Alba ci fossero questi problemi, la città sembra immacolata, è proprio vero che l’apparenza non è la sostanza». Un uomo di circa 60 anni legge il volantino esplicativo dell’iniziativa, aggiunge: «Io vengo dalla Calabria, sono arrivato ad Alba negli anni ’70. A quel tempo eravamo noi come gli africani oggi. Ci affittavano case col bagno in comune, in condizioni pessime e spazi piccolissimi, in cui stavamo ammassati. Ci trattavano male, ci discriminavano. Ma almeno noi una casa ce l’avevamo».
Il grande striscione bianco che segna la testa del corteo con il nome dei due ragazzi dice: “Morti di razzismo”. Perché il razzismo non si manifesta solo con attacchi verbali, ma anche con l’esclusione da alcuni diritti, l’impossibilità di affittare un’abitazione perché i proprietari sono diffidenti (la maggioranza delle persone che ad Alba oggi dormono fuori hanno uno stipendio e regolari permessi di soggiorno), il rimpallo delle prese di responsabilità da parte delle istituzioni, l’indifferenza di una società civile che preferisce orientare lo sguardo alle individualità e alla comodità delle vite quotidiane piuttosto che occuparsi di chi ogni giorno, la fuori, deve lottare per sopravvivere. «Il corteo del 15 dicembre non finirà qui», dice un manifestante giovane. «La città non sarà più la stessa, dopo quello che è successo in quel casolare abbandonato».
Stefano Mo
