
Tutte è un progetto speciale di Gazzetta d’Alba per la Giornata internazionale della donna: due redattrici e quattro collaboratrici del nostro giornale hanno raccontano altre donne, le cui storie hanno un significato: chi ricopre o ha ricoperto ruoli sul nostro territorio, chi ha lanciato iniziative innovative, chi segue strade inaspettate o chi ha semplicemente un vissuto da condividere.
Maria Grazia Olivero, giornalista, fino allo scorso luglio condirettrice di Gazzetta d’Alba
Le storie da raccontare, a volte, sono vicine. Lo scorso luglio, Maria Grazia Olivero ha lasciato la redazione di Gazzetta d’Alba, di cui è stata la prima donna ai vertici. Il suo è un percorso iniziato trent’anni fa, arrivando fino alla condirezione. «Sentivo di avere bisogno di una pausa», dice. Ma la vera passione per una professione non se ne va e oggi continua a collaborare con il nostro settimanale, anche per queste pagine dedicate all’8 marzo, che proprio lei negli anni ha sempre portato avanti.
Partiamo dall’inizio: com’è arrivata a Gazzetta d’Alba, Olivero?
«Entrai in redazione nel 1994, dopo un periodo di collaborazione. In piazza San Paolo c’erano tre giornalisti uomini, oltre al condirettore, don Mariano Tadone. A novembre, l’alluvione dell’Albese segnò il mio battesimo del fuoco. Fummo i primi sul campo, tra morti, fango, militari, sirene spiegate in un clima da assedio. Con i colleghi, raccontai le ferite inferte dal Tanaro e la fierezza degli albesi, cercando le responsabilità del disastro. Mi innamorai del mestiere, un lavoro artigianale ancora oggi, tra la gente, a dare ascolto ai problemi, mettendo a nudo la realtà, senza infingimenti».
Tanto da subire anche un processo: perché?
«Eravamo alla fine del millennio scorso quando intervistai un allevatore che si autodenunciava per aver utilizzato anabolizzanti. Sotto copertura, accettò di rivelare la diffusione di questa pratica illecita, lesiva per la salute. L’articolo destò molto scalpore. I servizi dell’Asl preposti al controllo negarono la situazione, mentre entrò in campo il Tribunale di Alba. Mi fu più volte intimato dal magistrato di rivelare il nome dell’intervistato e, al mio reiterato rifiuto, incredibilmente divenni l’imputata. La questione chiamò in causa l’Ordine nazionale dei giornalisti, anche perché si metteva in discussione il segreto professionale».
Come finì la vicenda?
«Al processo, celebrato dopo circa un anno, difesa dall’avvocato Roberto Ponzio, fui assolta e il “caso Olivero” divenne un precedente, studiato nelle scuole di giornalismo e per il quale l’onorevole Raffaele Costa depositò una proposta di legge. Ebbi una grandissima solidarietà dai lettori, dai colleghi di tutta Italia, ma anche dal Servizio sanitario regionale, guidato dal compianto Mario Valpreda. Affrontai con serenità il giudizio: ritenevo di aver agito in modo onesto e professionale a favore del bene comune. Era direttore don Giusto Truglia, che mi fu sempre accanto, come la mia famiglia».
Lei è stata la prima donna alla condirezione di Gazzetta d’Alba. Una grande responsabilità, non le pare?
«Sì, e anche un atto di fiducia da parte della San Paolo. Sono stata nominata caporedattrice, poi condirettrice. In quel periodo, era direttore don Antonio Rizzolo e amministratore delegato del gruppo editoriale don Truglia. Più che il peso della responsabilità, mi travolse la passione per il lavoro. Passavo dodici, tredici ore al giorno in redazione, non lesinando le domeniche. Durante un periodo tanto frenetico quanto fecondo, festeggiammo i 130 anni del settimanale con un importante rinnovamento. Gazzetta d’Alba ebbe un nuovo progetto editoriale, che le permise di essere più approfondita sulla carta, mentre prese forma il sito Internet, che oggi dà tante soddisfazioni».
Che cosa ha significato, per lei, questo settimanale?
«Una scommessa con la mia professionalità. Ma non ho fatto molta teoria: ho sempre preferito stare sul campo. Sì, all’inizio c’era chi mi avvertiva che non ce l’avrei fatta. Le stesse persone che mi avevano sconsigliato di accettare la nomina a caporedattrice, quelle che scuotevano la testa quando nei servizi affrontavo di petto, ma sempre con cognizione di causa, argomenti scomodi, tali da scatenare reazioni durissime. Penso di essere stata me stessa, dando il massimo, senza risparmiarmi, per migliorare il giornale. Posso dire di essermi impegnata forse più di quanto mi fosse richiesto, traendone grandi soddisfazioni. In un panorama editoriale difficile, Gazzetta d’Alba si è costantemente aggiornata, confermando la sua autorevolezza».
Ma si è sentita sotto osservazione, per il fatto di essere una donna?
«Per la verità, alle critiche, palesi o sussurrate alle spalle, ho sempre risposto con l’impegno. Lo fanno moltissime donne, in ruoli di responsabilità o meno. È vero che a livello culturale, anche negli ambienti più evoluti, può esistere un pregiudizio più o meno latente, ma i passi avanti sono costanti. Mi preoccupa invece la violenza da cui non si scuote la società, la disgregazione dei valori, il mito della forza che non solo lascia indietro, ma brutalizza i più deboli».
Che cosa pensa di aver portato al “suo” giornale?
«Entusiasmo, voglia di fare, attenzione ai problemi e alle persone, il coraggio di non essere conformisti e uno sguardo puntato avanti. La mia più grande soddisfazione è stata sentire il calore del rapporto con i lettori. Li ho sempre avvertiti come compagni di strada. Raccontando le loro vicende, siamo partiti dal locale per affrontare temi politici, sociali e globali, accompagnando l’evoluzione della comunità. È stato il mio modo di fare giornalismo».
Francesca Pinaffo
