Ultime notizie

25 aprile / Dai nostri archivi, le parole di Giovanni Vico: «Inizia un’era nuova e duratura di libertà»

Per gli 80 anni dalla Liberazione, ripubblichiamo l'ultimo articolo per Gazzetta del sindaco Giovanni Vico

25 aprile / Dai nostri archivi, le parole di Giovanni Vico: «Inizia un'era nuova e duratura di libertà»
Partigiani in piazza Duomo durante la Liberazione. @Archivio Centro studi Beppe Fenoglio

DAGLI ARCHIVI Nato a Mallare nel 1868, Giovanni Vico fu medico condotto in alta Langa; si trasferì ad Alba nel 1903 e divenne primario all’ospedale San Lazzaro. In Consiglio comunale per la parte cattolica già nel 1904, nel 1920 fu eletto sindaco per il Partito popolare di don Sturzo. All’indomani della marcia su Roma, il 2 novembre 1922, le squadracce fasciste occuparono il palazzo comunale. Vico reagì convocando il Consiglio nella sua casa e, con il sostegno di Teodoro Bubbio, Urbano Prunotto e Riccardo Roberto, fece approvare l’ordine del giorno con il quale gli amministratori albesi rifiutavano di dimettersi. Una volta terminato il mandato, nel ’25, con il consolidarsi del regime non ebbe più modo di fare attività politica. Poté assistere alla liberazione di Alba e a scrivere le righe che seguono, pubblicate il 10 maggio 1945 sotto il titolo Il ritorno della libertà. Morì il 10 luglio successivo.

Il più bel dono che Dio abbia fatto all’uomo è quello della libertà, eppure l’uomo la toglie così facilmente all’uomo, e talora così volentieri lo riduce in schiavitù. L’antica schiavitù era addirittura un’istituzione legale; la moderna ha altro colore di forme e di metodi, ma non lascia di essere schiavitù (…).

Così, ben si comprendono le erompenti grida di gioia del popolo italiano all’uscita dall’ultraventennale forma di schiavitù razziale fascista. Or ci auguriamo, che s’apra una era nuova di duratura libertà, di fratellanza, di reciproco rispetto dei diritti e della dignità della persona umana. Al soffio della libertà sono già sorti vari partiti politici, e forse ne sorgeranno ancora, ma per il bene comune vivano in armonia e in emulazione di buone e proficue opere, né l’uno cerchi di sopraffare l’altro, né di impedirne la libertà, la giusta attività, e la messa in esecuzione delle aspirazioni programmatiche (…).

Così anche fra noi la teoria del superuomo s’esplicò in Mussolini, in D’Annunzio ed altri, dimodoché per un ventennio sotto l’imperio assoluto del Duce l’Italia a poco a poco fu ridotta in schiavitù materiale e morale. Tant’è vero che solo i devoti dell’unico partito ammesso erano privilegiati e favoriti in tutto: nelle cariche, negli impieghi, nei mestieri, nelle paghe, negli indumenti, nelle provvigioni alimentari ecc.; s’era poi tutti strettamente vincolati nel parlare, nel leggere, nello scrivere, nell’insegnare, nell’ascoltare, nel trattare, nel salutare, e in altro ancora. Era lecito soltanto quanto gradiva al dittatore fascista. E come era possibile tutto questo? Perché, talora pur potrebbe avvenire «che l’uomo investito d’un potere totale e unico non avrebbe più alcun freno né giuridico, né politico, né morale, e si presenterebbe come un idolo». (da La persona umana, di Natale Bussi).

(…) Così col patto dell’unico, assoluto, sfrenato potere, si poté addivenire a un’immane guerra, senza il consenso del popolo, senza ragioni impellenti (…)

Banner Gazzetta d'Alba