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L’intervista / Giacomo Oddero nel 2016: «Ai giovani dico: studiate, siate moderni e pronti per le difficoltà »

In occasione dei suoi 90 anni, Giacomo Oddero si era raccontato in una lunga intervista a Gazzetta d'Alba, tra passato e futuro del territorio

Giacomo Oddero sarà premiato sabato a Grinzane dall’Acquedotto delle Langhe
Goacomo Oddero durante una premiazione.

IL RICORDO Lo avevamo incontrato a Santa Maria di La Morra, a pochi giorni dal suo compleanno. Era il 2016 e il traguardo era quello dei 90 anni. Con la vendemmia già nell’aria, Giacomo Oddero, seduto in poltrona, si raccontava a Gazzetta d’Alba. E parlava non solo di passato, ma soprattutto di futuro. Era stato lui, quell’anno, a lanciare l’idea della candidatura della cerca del tartufo a patrimonio immateriale dell’umanità, un traguardo poi arrivato nel 2021 da parte dell’Unesco. 

Oggi riproponiamo l’intervista, dopo l’annuncio della sua morte.


Giacomo Oddero è un uomo gentile e sicuro, con un eloquio limpido e fluente, in cui ogni parola ha un peso, così come le pause. Alle dotte citazioni in latino, omaggio all’amato liceo Govone, alterna qualche frase in piemontese, come a ricordare che la sua storia è cominciata e continua proprio qui, su queste colline.

Nato a Santa Maria di La Morra, sede della storica cantina di famiglia, nel 1926, ha festeggiato da poco i novant’anni. Farmacista, imprenditore vitivinicolo, è uno dei personaggi chiave dell’Albese e del Cuneese:  presidente della Camera di commercio e della Cassa di risparmio di Cuneo, ma anche del Consorzio acquedotto delle Langhe, oltre a essere uno dei principali fautori dei disciplinari dei vini di Langhe, Roero e Monferrato, si è occupato anche di regolamentare la produzione di formaggi, con la creazione delle Dop.

Ma con Giacomo Oddero non si parla solo del passato. Sabato 24 settembre è stata presentata ad Alba, nel palazzo comunale, la candidatura della cultura del tartufo a Patrimonio immateriale dell’Umanità, progetto nato da una sua idea e portato avanti dal Centro Nazionale Studi del Tartufo, da lui fondato, insieme all’Associazione Nazionale Città del Tartufo, con il contributo dell’Università di Scienze Gastronomiche e dell’Università di Siena. Se l’esito sarà positivo, il tuber magnatum Pico potrebbe entrare a far parte della lista elaborata dall’Unesco per raccogliere quel patrimonio culturale di tradizioni orali e saperi, identità di un territorio.

Si parte da qui.

 Oddero, parliamo di questa importante novità. Quando e come è nata l‘idea della candidatura?

“Ho sempre desiderato celebrare non solo il tartufo in sé, ma il mito del tartufo, questa affascinate ricerca che si svolge di notte, al chiaro di luna, in una sorta di simbiosi tra il cane e l’uomo, un rapporto fatto d’amore e rispetto. È una tradizione preziosissima, di segreti e luoghi tramandati di generazione in generazione.  Grazie all’incontro fortuito con l’allora presidente italiana dei club Unesco, ho appreso dell’esistenza di questa lista, nata nel 2003. Nel 2012 ho lanciato l’idea in occasione della Fiera, ma il progetto era ancora piuttosto debole. Abbiamo deciso di coinvolgere l’Associazione Nazionale Città del Tartufo: la proposta partirà da Alba, indiscussa capitale di questo prodotto, ma unirà tutte i paesi e città in cui nasce”.

La Fiera 2016 parlerà di ecologia, con una raccolta fondi a favore delle tartufaie naturali, iniziativa che vede anche la partecipazione del Centro Nazionale Studi del Tartufo.

“Il Centro è da sempre impegnato nella salvaguardia e nel recupero delle piante tartufigene e delle relative zone boschive. Purtroppo, a differenza di quanto accadeva in passato, si è diffuso un tipo di viticoltura razionale, in cui le zone marginali non sono coltivate e il sottobosco non è pulito, a danno del tartufo, che cresce in simbiosi con le radici del suo albero. Non bisogna abbattere le piante e occorre sostenere gli agricoltori che operano in maniera attenta alla natura. Questo è uno dei modi per mantenere viva la cultura del tartufo“. 

L’evoluzione nella Langa 

 Novant’anni in prima linea, a favore delle nostre colline e dei loro abitanti. Questo sembra essere il filo conduttore della sua vita, nei vari incarichi che ha ricoperto.

“Io sono nato qui. Ho conosciuto da vicino le difficoltà che la mia generazione ha dovuto affrontare durante la Seconda Guerra Mondiale e nel primo dopoguerra. Era una vita grama, il contadino era l’ultimo anello della catena, poteva sperare in un buon raccolto, ma le sue uve non erano mai pagate abbastanza bene. Mi sono laureato in farmacia a Torino, ma ho scelto di lavorare ad Alba, vicino all’azienda di famiglia, che ho portato avanti con mio fratello Luigi, enologo. Mi fu da subito chiaro che bisognava cambiare rotta e puntare sulla qualità, non più sulla quantità. La guerra aveva fatto crollare il mercato dei nostri prodotti, perché non c’era nessuna legge che li proteggesse rispetto a quelli delle altre regioni. Cercai allora di portare la questione all’attenzione del Parlamento italiano e della Provincia di Cuneo e a far sì che si mettesse ordine nel settore vitivinicolo: dalla prima normativa generale del ’63, ci siamo sempre mossi in questa direzione”.

Si sarebbe mai immaginato a quei tempi una Langa come quella di oggi, tra benessere e turismo?

“Era inimmaginabile, ma ho capito fin da subito che la rivoluzione silenziosa della nostra gente avrebbe dato presto i suoi frutti. È stata una battaglia corale, portata avanti da tanti e tanti agricoltori, che hanno cambiato il loro modo di produrre e hanno impiegato il loro guadagno per creare cantine moderne e all’avanguardia. In questo viaggio non sono stato solo: le leggi servono solo se ci sono persone che ci credono e le portano avanti. È stato fatto il grande passo, da contadini siamo diventati un popolo di piccoli imprenditori”.

Il ricordo di Beppe Fenoglio

 Se si parla della Langa della guerra, una terra grama, non si può non pensare alle pagine di Fenoglio. Che ricordi ha di lui?

Ho conosciuto la prima volta Fenoglio da studente durante il cosidetto “sabato fascista”, nella vecchia Piazza del  bestiame. Eravamo divisi in balilla, avanguardisti e quelli più grandi ai corsi paramilitari. Lui aveva sei anni più di me ed era a capo di un gruppo di ragazzi più piccoli. Anziché farci marciare, scattare, fare dietrofront, ci diceva: “Fate quello che volete! Tanto quel balengo di Roma…”, parlava di Mussolini. Ho poi ripensato tante volte a quel ragazzo che diceva quel che pensava. Oggi “La Malora” è per me uno degli scritti più importanti del Novecento”.

Torniamo al presente. Molti giovani, negli ultimi anni, sono ritornati alla coltivazione della terra, come reazione alla crisi occupazionale. Cosa pensa di questo fenomeno?

“Bisogna essere ben formati, avere uno spirito moderno, conoscere le lingue, e, aspetto non meno importante, saper affrontare le difficoltà che questo tipo di scelta comporta. Non bisogna illudere i ragazzi, ma insegnare loro come muoversi nell’ambiente dell’agricoltura. Ai giovani viticoltori dico: non dovete essere semplici venditori di uva, ma trasformatori di uva in vino e ricavare dal vostro lavoro il giusto guadagno, per vivere in modo dignitoso”.

Chiudiamo il cerchio e torniamo a lei, Oddero: un pensiero per descrivere l’avventura dei suoi primi novant’anni.

“Se mi guardo indietro ho fatto tante cose, alcune sono riuscite molto bene, altre meno, ma posso dire con sicurezza che nella vita solo chi non fa nulla non sbaglia mai”.

Francesca Pinaffo

 

 

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