
LA STORIA Bergolo e Telidje, in Guinea, sono separati da alcune migliaia di chilometri, ma saranno uniti dal progetto “Una goccia, un cambiamento”, ispirato dall’esperienza di vita di Mamadou Diouma Balde, che nel piccolo villaggio rurale è andato a scuola e che nel 2015, a soli 16 anni, ha lasciato il proprio Paese per raggiungere l’Italia passando dal Benin e salendo su un barcone in Libia. L’obiettivo è realizzare un pozzo a Telidje attraverso una raccolta di fondi. Nel villaggio, con dimensioni e popolazione simili a Bergolo, non ci sono elettricità e acqua corrente. La fonte più vicina è a sette chilometri e non esistono strade percorribili in auto. È anche inutile cercare il villaggio su Google maps poiché la zona in cui si trova è estremamente isolata. In un’epoca in cui tutto (o quasi) passa sul Web, Telidje è come se non esistesse.
Il progetto è sostenuto dalle associazioni Vagamondo e New wellness education, entrambe con sede a Bergolo, da anni impegnate in progetti che richiamano nel paese di pietra giovani da tutto il mondo. Mamadou Diouma Balde, residente a Torre Bormida, collabora con entrambi i sodalizi e ha lanciato l’iniziativa in occasione della cena etnica che ha caratterizzato la festa dello scorso settembre. La somma necessaria per concretizzare l’idea di Mamadou è di cinquemila euro. Il pozzo sarà dotato di una pompa elettrica alimentata da un pannello solare. Ci saranno una fontana per prelevare l’acqua e un abbeveratoio per gli animali allevati nel villaggio. L’offerta minima richiesta per partecipare è di cinquanta euro e verrà inquadrata come donazione liberale. Pertanto sarà detraibile.
«In Guinea l’accesso all’acqua potabile è una delle principali difficoltà. La costruzione di un pozzo non è solo un gesto simbolico, ma anche una vera e propria occasione per migliorare la qualità della vita di chi vive nel villaggio», spiegano i referenti delle due associazioni bergolesi rivolgendosi alle realtà economiche della zona.
«Le aziende locali sono chiamate a fare la loro parte come benefattori e per creare un cambiamento duraturo. Investire in progetti come quello di Telidje è anche un’opportunità per le imprese di rafforzare la reputazione e l’impegno sociale. Le aziende che decideranno di appoggiare il progetto dimostreranno di essere sensibili alle problematiche globali e di avere una visione a lungo termine, che abbraccia non solo il benessere di dipendenti e clienti, ma anche quello delle comunità più vulnerabili», proseguono i promotori dell’iniziativa.
«Sostenere la realizzazione del pozzo a Telidje è un’opportunità per le aziende di integrare valori di responsabilità e solidarietà nelle loro attività, creando un impatto positivo ed è anche un modo per far crescere il proprio business in modo etico e sostenibile. Le aziende che decidono di aderire al progetto possono diventare protagoniste di una storia di speranza e cambiamento», concludono i responsabili delle due associazioni.
Per avere informazioni sul progetto e sulle modalità di partecipazione all’iniziativa è possibile scrivere a vagamondo@vagamondo.info.
Corrado Olocco
Dove non esiste la comodità del rubinetto l’acqua è considerata il dono più prezioso
TESTIMONIANZA L’acqua è vita, in ogni parte del mondo, ma in alcuni luoghi questa certezza è più percepibile che in altri. Se in Paesi come il nostro siamo abituati ad aprire il rubinetto per vederla comparire, senza renderci conto di quanto rappresenti una comodità, in altri il processo per ottenerla è più complicato e richiede tempo, fatica e parsimonia. La “magia dell’acqua” non è per tutti. «L’acqua è un problema», mi diceva Esperance in Ruanda, quando, dopo un paio di giorni trascorsi come volontaria a zappare con le donne di una cooperativa agricola, iniziavo a desiderare qualcosa di più di una doccia centellinando l’acqua di un secchio aiutandomi con un mestolo.
Nella casa che ospitava me e gli altri volontari, nei bagni siti a distanza di due cortili dalle camere, i rubinetti c’erano, a differenza delle case del villaggio, ma purtroppo l’acqua mancava spesso, a volte per giorni. Così, Esperance e Delphine partivano armate di taniche e si mettevano in fila con le altre donne alle fontane. L’acqua è stata un problema in tutti i posti in cui ho vissuto durante i progetti di volontariato ai quali ho partecipato in Africa. Se nelle zone e nelle strutture turistiche si ripete la “magia del rubinetto” che viviamo nelle nostre case, la quotidianità della popolazione è un’altra. Nei villaggi sparsi nelle campagne l’acqua va attinta ai pozzi o alle fontane, non di rado anche molto distanti dalle abitazioni. È un’attività di cui si occupano le donne, spesso anche i bambini, che la mattina presto vedevo camminare trascinando grandi taniche di plastica legate a una cordicella, dirette alle sorgenti, per poi rientrare con pesanti carichi in equilibrio sulla testa.
Anche a Zanzibar le fontane sono un problema. A pochi chilometri dai resort sulla costa, la popolazione, perlopiù contadina, è costretta ad acquistare l’acqua dal camioncino che ogni mattina passa con una cisterna a riempire i recipienti. Non solo è costosa, ma anche limitata a pochi litri a persona, che dovranno bastare per cucinare, lavarsi e fare il bucato. Nemmeno una goccia deve andare sprecata. L’acqua è un problema. In città non sempre la situazione è migliore. Spesso, anche quando i rubinetti ci sono, l’acqua manca per molte ore al giorno, oppure la pressione è sufficiente per farne arrivare un rivolo, ma non basta per una doccia. Allora si riempiono lentamente secchi, ai quali poi si attinge con recipienti colorati. A Nairobi, a fare da contraltare ai quartieri ricchi sono le baraccopoli, insediamenti informali, ammassi di lamiere senza finestre in zone prive di infrastrutture, dove non esistono il servizio idrico né quello elettrico, né una rete fognaria. L’acqua è un problema.
E poi c’è la savana, che nella stagione secca è secca davvero e lo è sempre di più, perché i monsoni ultimamente si fanno aspettare, o sono più brevi e aggressivi. La savana del Kenya e della Tanzania è casa dei Masai, le cui donne al mattino camminano a volte per chilometri per andare a recuperare l’acqua. Nel Masai Mara mi sono imbattuta in un gruppo di donne che aveva appena raggiunto il fiume con taniche da 20 litri da riempire. Ma il fiume è inquinato, per colpa dei resort a monte, mi dissero, che scaricano detersivi e rifiuti. Allora le donne ogni giorno devono scavare buche lungo l’argine, nella sabbia che funge da filtro, e aspettare, sperando che si riempiano. Se non accade, torneranno più tardi e ci riproveranno. Se sono fortunate, le buche lentamente si riempiono e allora possono attingere all’acqua, con piccoli recipienti, facendo attenzione a non caricare sabbia. È un lavoro che richiede tempo e pazienza. Niente magia del rubinetto.
Al momento della mia partenza dal Ruanda, Esperance si era fatta attendere. Quando finalmente era comparsa per salutarmi, aveva un regalo che stringeva al petto come un bambino e che mi porse, con un’aria compiaciuta di trionfo. Era una bottiglia d’acqua per il viaggio che mi accingevo a intraprendere. Da Esperance ricevetti il dono più prezioso: l’acqua. La vita.
Elisa Pira
