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La testimonianza di Roberto Cavallo: in tempo di pace Gaza era un’economia circolare

Per Cavallo, l’impatto sull’ambiente delle guerre è devastante:

La testimonianza di Roberto 1

di Davide Barile

MEDIO ORIENTEGaza oggi è l’inferno di cui tutti abbiamo visto le immagini in televisione e su Internet, ma pur essendo sempre stata una delle zone più difficili al mondo, fino a pochi anni fa era una terra in cui la speranza poteva essere coltivata.

A portare una testimonianza di cosa fosse la Striscia prima dello sterminio in atto è Roberto Cavallo, che con la cooperativa Erica è stato più volte nel territorio occupato. «L’esperienza mia e dei miei colleghi», racconta, «è iniziata nel 2017 ed è proseguita fino al 2021. Avevamo vinto una gara dell’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo, ente legato alla Farnesina, per progettare e mettere in pratica un piano di sviluppo per la gestione dei rifiuti. Cooperavamo con gruppi tedeschi, giapponesi e canadesi e, per prima cosa, dovemmo fare delle indagini per capire che tipo di rifiuti si producevano».

La testimonianza di Roberto Cavallo: in tempo di pace Gaza era un'economia circolare

Un progetto per la gestione dei rifiuti

Nella Striscia «si trovava principalmente l’organico, che costituiva circa il 70 per cento del peso del sacchetto, molta plastica e un po’ di carta. Di vetro e metalli ce n’erano pochissimi e le macerie, come si faceva da noi una volta, erano riutilizzate per costruire altre abitazioni. Concordammo così di prevedere due secchi, uno per l’umido e l’altro per il secco».

La carta «era conferita a una cartiera che fabbricava principalmente portauova, mentre la plastica andava a uno stampatore che faceva sedie e tavoli da giardino grezzi. Da Gaza non esce nulla: una vera economia circolare».

Per l’umido «notammo che nella Striscia c’erano circa 130 vivaisti che coltivavano fiori e piante da vendere a Israele. Dal Paese confinante importavano il compost a caro prezzo, dei prodotti dei vicini avevano un’enorme stima. Abbiamo spiegato loro che il compost avrebbero potuto farselo da soli. Così, con le università locali, iniziammo un percorso che diede buoni risultati e portò alla creazione di centri per il compostaggio. Purtroppo, sono costretto a usare il tempo passato: di tutto ciò, oggi, non rimane nulla».

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Nell’area più colpita dai bombardamenti

La zona in cui operavano Cavallo e i responsabili della cooperativa Erica «era tra i campi profughi del Nord, l’area più colpita dai bombardamenti. Ancora dopo il 2021 abbiamo mantenuto i contatti con i ricercatori e gli addetti con i quali avevamo collaborato. So che uno di loro è riuscito ad andare in Canada, di altri non so nulla. Ho provato a inviare qualche e-mail di recente, senza però avere risposta. L’ultima, mi era arrivata nel gennaio 2024 da una ricercatrice: il tono era disperato e il testo terminava con: “ognuno di loro, un giorno, pagherà il prezzo”».

Sulle vicende storiche «non mi sento di esprimere giudizi, rischierei di semplificare troppo. Di certo, so che Hamas non rappresenta la Palestina ed è un problema anche per loro. Allo stesso tempo, Gaza è sempre stata una prigione a cielo aperto. Per arrivarci ci sono i tornelli, che aprono al mattino e chiudono al pomeriggio: quando siamo andati noi, dovevi passare i controlli israeliani, palestinesi e di Hamas. Per quanto siano condannabili gli attentati del 7 ottobre, la reazione è ingiustificata: per vendicare le oltre mille persone morte, non ne puoi uccidere 50mila. Israele ha agito da solo, senza chiedere il supporto diplomatico della comunità internazionale».

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La guerra impatta sull’ambiente

Per Cavallo, l’impatto sull’ambiente delle guerre è devastante: «Il primo punto riguarda la distruzione e l’impiego di risorse per la ricostruzione. Le esplosioni, poi, generano un elevato livello di polveri sottili. Bombe e mezzi militari comportano una notevole emissione di anidride carbonica che contribuisce a innalzare la temperatura del pianeta. Un razzo, per funzionare, deve essere costruito con grandi quantità di terre rare. Ciò comporta una corsa alle miniere e agli armamenti».

Spendere il 5 per cento del Pil per la difesa «è controproducente, si tolgono soldi ad altri ambiti come alla ricerca e alla sanità per contribuire all’inquinamento e alla morte. In Germania, l’economia più sviluppata d’Europa, si sta abbandonando il settore dell’automobile e si punta sull’industria bellica. È un paradosso da pelle d’oca: se non si fanno le guerre, l’economia va male e si licenziano i lavoratori».

In Italia, «qualche anno fa si è gridato allo scandalo per qualche miliardo messo nel Green deal per investimenti legati alla sostenibilità ambientale. Gli agricoltori sono scesi in piazza con i trattori contro la Politica agricola comune ma ora, con il 5 per cento di Pil per la difesa, nessuno protesta».

Intanto «il caldo aumenta, la temperatura del Mediterraneo si alza di cinque gradi e, in autunno, dovremo fronteggiare fenomeni meteorologici estremi». 

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