
di Valerio Re
ALBA – «Quando cammino in zona sovente incrocio lo sguardo con gruppi di ragazzi africani seduti sui muretti e sulle panchine. Parlano tra loro. A volte mi fermo a salutare, scambiamo due chiacchiere. Ora conosco i loro nomi e viceversa. Niente di anomalo, per me è normale. Lo farei con italiani o con giovani di ogni altra nazionalità», lo dice Roberto, 33 anni, albese che lavora nella ristorazione. È stato lui a condividere con Gazzetta d’Alba il suo pensiero, dopo che, negli ultimi mesi, il tema della sicurezza alla stazione di Alba è diventato centrale nel dibattito pubblico e politico. Riprende Roberto: «Vedo, però, che molti hanno paura. C’è chi abbassa lo sguardo e prosegue dritto. I pregiudizi e le false credenze sono ancora tante». Un conto sono le operazioni delle Forze dell’ordine e i fatti di cronaca, un altro è l’atteggiamento etichettante, che diventa ancora più evidente nell’agone dei social network: è questo il concetto.
C’è anche il tema del disagio, alimentato da meccanismi sociali che non garantiscono equità, diritti di base e inclusione. Lo si vede anche nella realtà albese, dove da anni si parla della questione dell’accoglienza di chi è in difficoltà, siano lavoratori delle vigne o persone che hanno una casa e che attraversano un periodo complesso (ne parliamo nell’articolo sotto).
Per cercare di analizzare meglio la questione, abbiamo parlato con Pietro Boffi, sociologo, collaboratore del Cisf (Centro internazionale studi sulla famiglia): «Viviamo in una società atomizzata, competitiva, incline a non considerare prioritaria la dignità della persona o i suoi diritti fondamentali. Questo tipo di impostazione sociale lascia indietro molte persone, produce emarginati», spiega. «Le risposte repressive per fronteggiare situazioni di pericolo o violenza lasciano il tempo che trovano. Agiscono nell’im-
mediato. Dovremmo, al contrario, chiederci: come possiamo costruire una società più accogliente, capace di offrire a tutti pari diritti e possibilità di vita dignitosa?». Questo non significa, come prosegue il sociologo, che i problemi non vadano affrontati: «Servono attenzioni e strategie su come evitarli, agendo in chiave di prevenzione. Anche perché una parte di popolazione, a partire dai residenti delle aree interessate, ne subisce le conseguenze, che non sono certo positive».
Boffi torna a parlare delle persone in condizioni di disagio: «È vero che qualche volta, quando si offre loro un aiuto, lo rifiutano in modo deciso e preferiscono non cambiare vita. Sono scelte personali, ma si tratta di eccezioni». Di solito i progetti di stampo sociale portano a risultati, perché affrontano il problema alla base. Come si potrebbe agire, allora? Oltre al seguire le persone in modo adeguato a livello sociosanitario, come per chi presenta forme di dipendenza, sarebbero importanti gli educatori di strada. Da soli, però, questi ultimi non possono risolvere i problemi.
«Servono delle strategie integrate sui vari fronti, supportando chi è in condizioni di fragilità e favorendo azioni per creare un contesto più equo. Agire sulle cause del disagio sociale è complesso, certo, ma non è con atteggiamenti repressivi o giudicanti che individueremo la strada più corretta», conclude il sociologo Pietro Boffi.