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Cheese 2025: la storia del Montébore, quel formaggio che affonda le radici nel Medioevo

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di Valter Manzone

BRA – Correva l’anno 1489 e il 5 febbraio, a Tortona, i festeggiamenti per il matrimonio di Isabella d’Aragona e Gian Galazzo Sforza, duca di Milano, erano al culmine. Durante la celebre festa del Paradiso, magistralmente organizzata da Leonardo da Vinci, gli sposi ricevettero, donata dal cerimoniere, una grande torta, a forma di torre, realizzata con il formaggio Montébore.

Un formaggio contadino, le cui origini risalivano in realtà all’anno Mille, a cura di alcuni monaci che dimoravano dell’abbazia benedettina di Santa Maria di Vendersi situata sul Giarolo, il monte attorno al quale si sviluppano le tre valli del Grue, del Curone e della Borbera.

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La produzione del Montébore però cessò improvvisamente nel secondo dopoguerra, periodo che vide una massiccia emigrazione dalle valli che, spopolandosi, rischiarono di perdere quel ruolo di testimoni che per secoli avevano ricoperto tramandando di generazione in generazione tutte quelle tradizioni contadine che da tempo immemore erano ormai simbolo dell’identità di un intero territorio.

Racconta il giovane casaro Matteo Grattone, che – con i genitori e uno zio – cura la produzione di questo formaggio, che dopo aver rischiato l’estinzione, da oltre vent’anni è tornato a «nuova vita»: «Noi raccogliamo il latte vaccino, ovino e caprino, nelle nostre zone. Poi prepariamo la cagliata miscelando latte crudo, per il 65% vaccino, il 30% ovino e il 5 % caprino.  La cagliata, rotta fino ad ottenere chicchi omogenei della grandezza di una nocciola, è posta nelle fuscelle, rivoltata e salata. Una volta che il formaggio viene estratto dalla stampo, composto da tre forme dal diametro decrescente, viene posto a stagionare, adagiando le forme una sopra l’altra. Le tre tome rimangono così piazzate e, grazie ai processi naturali, si incollano formando una torre. La crosta inizialmente è liscia e umida e poi, con la stagionatura, diventa più asciutta e rugosa. Il colore va dal bianco al giallo paglierino. La pasta è liscia o leggermente occhiata, di colore bianco in varie sfumature».

Per oltre 20 anni presidio Slow food, oggi il Montébore ha una suo disciplinare, ricavato dalle ricette delle signore delle vallate che avevano ripreso a produrlo alla fine degli anni novanta del secolo scorso. Aggiunge Matteo: «Il Montébore, la cui forma richiama le torri del castello medioevale di Montébore, opportunamente stagionato, denuncia all’assaggio il sapore del latte ovino, anche se la percentuale di latte di pecora non supera mai il 30%».

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