
Walter Colombo, inviato a Venezia
MOSTRA DEL CINEMA – Il regista francese François Ozon porta alla Mostra del cinema il suo film in concorso L’étranger (Lo straniero), tratto dall’omonimo romanzo di Albert Camus. Un romanzo mitico che ha attraversato generazioni, influenzato la cultura contemporanea e ispirato un film a Luchino Visconti nel 1967 dove il protagonista era Marcello Mastroianni.
Ora, quasi sessant’anni dopo, ottantatré dalla prima pubblicazione del libro, arriva una nuova trasposizione cinematografica dello stesso romanzo. «Ho tentato di comprendere il mistero di Meursault», dice il regista. «Scopro i miei film girandoli. Non so mai veramente a cosa assomiglieranno alla fine. Sapevo di essere stato profondamente toccato dal libro, da questa assurdità della vita che Camus descrive senza mai cedere alla disperazione. Questo libro e spero questo film ci interroga».
Per quanto riguarda il confronto con Visconti, Ozon non ha sentito particolare pressione, infatti in una delle sue interviste, Visconti confidava di non aver potuto fare il film che avrebbe voluto, non era contento e diceva che la sua scelta iniziale per interpretare Meursault non era Mastroianni, ma Delon. Effettivamente era un’idea migliore, l’incarnazione ideale di Meursault negli anni ’60 era davvero il Delon giovane.
Nei panni di Meursault, uomo solitario e indifferente alla società in cui vive, c’è il bravissimo Benjamin Voisin, 28 anni, una scelta pienamente azzeccata per quel ruolo. Ambientato in Algeria nel 1938, Meursault, un tranquillo e modesto impiegato sulla trentina, partecipa al funerale della madre senza versare una lacrima. Il giorno dopo inizia una relazione occasionale con Marie, una collega, e torna rapidamente alla solita routine. Ben presto, però, la sua vita quotidiana è sconvolta dal vicino, Raymond Sintès, che lo trascina nei suoi loschi affari, finché su una spiaggia, in una giornata torrida, si abbatte la tragedia.
«L’idea di adattare uno dei romanzi più famosi della letteratura mondiale ti mette in uno stato di ansia e dubbio. Finora avevo adattato solo opere meno conosciute e meno rinomate. Affrontare un capolavoro che tutti hanno letto, e che ognuno ha già messo in scena nella propria mente, è stata una sfida immensa. Ma il mio interesse per il libro era più forte delle mie apprensioni, così mi ci sono buttato con una certa leggerezza», dichiara il regista.
Per François Ozon scrivere questo film significava riconnettersi con una parte dimenticata della sua storia personale. Il nonno materno era giudice istruttore a Bône (oggi Annaba), in Algeria, e nel 1956 era sfuggito a un attacco, evento che aveva accelerato il ritorno della propria famiglia nella Francia continentale. Lavorando su documenti e archivi, e incontrando storici e testimoni dell’epoca, Ozon si è reso conto di quanto tutte le famiglie francesi abbiano un legame con l’Algeria, e di quanto pesi il silenzio che spesso grava ancora sulla propria storia comune. La pellicola è in bianco e nero e la scelta è stata appropriata perché rende bene quel mondo lontano che non c’è più e anche tutto il mondo misterioso interiore del protagonista. Un film veramente bello, che trasporta lo spettatore nell’Algeria francese di fine anni trenta facendolo sentire parte di quella realtà, eccellente la fotografia e la sceneggiatura.
A House of Dynamite di Kathryn Bigelow tiene incollati allo schermo
La regista americana Kathryn Bigelow porta al Lido il suo film in concorso A House of Dynamite, film d’azione adrenalinico che tiene incollati allo schermo col fiato sospeso. D’altronde da quando cinquant’anni fa decise di abbandonare il San Francisco art institute trasferendosi a New York e iscrivendosi alla Columbia’s film school, diventando così regista invece che pittrice, ha abituato i suoi spettatori a quel genere di film.
Il suo arrivo nel mondo del cinema fu vissuto come una vera e propria invasione nel campo rigorosamente maschile dei film d’azione, con i suoi imprevisti bikers, horror vampirici, poliziotteschi, terroristi fantadistopici, rapinatori surfisti, e soldati dovunque in guerra, dalla claustrofobia dei sommergibili, agli sminatori di bombe. Sempre con una tecnica adrenalinica e testosteronica, che non nascondeva sangue e violenza, sottolineata dalla macchina da presa in spalla. E dopo otto anni dal politicissimo Detroit, ricostruzione di uno storico scontro fra polizia e manifestanti afroamericani di diritti civili nel 1967, bilancio 43 morti, 1.189 feriti, oltre 7.200 arresti e circa duemila edifici distrutti, culminato in un processo contro tre poliziotti accusati dell’omicidio di tre manifestanti, presentato proprio a Venezia, eccola finalmente di ritorno in laguna col suo nuovo lungometraggio che vede come protagonisti Idris Elba e Rebecca Ferguson.
La storia è vissuta all’interno della Casa Bianca, in allarme rosso per un missile non riconosciuto segnalato sul radar, ma nessuno sa con esattezza se è nucleare o no, come fare per fermarlo, e quali potrebbero essere le conseguenze. «Sono cresciuta in un’epoca in cui nascondersi sotto il banco di scuola era considerato il protocollo di riferimento per sopravvivere a una bomba atomica. Ora sembra assurdo, e lo era, ma all’epoca la minaccia era così immediata che tali misure venivano prese sul serio. Oggi il pericolo non ha fatto che aumentare. Diverse nazioni possiedono armi nucleari sufficienti a porre fine alla civiltà in pochi minuti. Eppure c’è una sorta di intorpidimento collettivo, una silenziosa normalizzazione dell’impensabile. Quindi come possiamo chiamare tutto questo difesa quando l’inevitabile risultato è la distruzione totale? Volevo fare un film che affrontasse questo paradosso, che esplorasse la follia di un mondo che vive all’ombra costante dell’annientamento, eppure ne parla raramente», racconta la regista.
Dal 2010 Bigelow non è più una semplice filmmaker, ma una leggenda: la prima donna a vincere l’Oscar per la regia con The Hurth Locker, battendo in un duello “rusticano” addirittura il super kolossal Avatar, dell’ex marito James Cameron. A House of Dynamite, prodotto da Netflix, uscirà in cinema selezionati l’8 ottobre, e su streaming il 24 ottobre.
Il presente è eterno e Dante torna ai giorni nostri
Quando si parla di Julian Schnabel, ogni suo film è un mondo a sé, nessuno è uguale al precedente o al successivo. Eppure, non è una coincidenza che la maggior parte di essi siano ritratti di artisti e rappresentazioni appassionate del processo artistico. «Tanto generosa quanto selvaggiamente fantasiosa, la produzione cinematografica di Schnabel è un dono al cinema, articolato attraverso un linguaggio del tutto originale», dichiara il direttore della Mostra del cinema Alberto Barbera.
Il suo nuovo film, In the Hand of Dante, presentato fuori concorso al Lido, è il suo progetto più ambizioso. Tutti i suoi film sono abbondanti, traboccanti e vibranti di vita, di pulsazioni. Nell’inquadratura c’è sempre un di più da vedere, da sperimentare e da sentire.
Basato sull’omonimo romanzo di Nick Tosches e adattato per lo schermo da Louise Kugelberg insieme allo stesso Schnabel, il film è la storia di un manoscritto autografo della Divina Commedia di Dante Alighieri che viaggia dalle mani di un prete a quelle di un boss mafioso di New York City, per essere poi portato a Nick Tosches con la richiesta di verificarne l’autenticità.
All’avventura del protagonista, in un’altra epoca, si sovrappone, dunque, la vicenda personale di Dante. Il poeta fugge da un matrimonio combinato e si rifugia in Sicilia per terminare la sua opera. I consigli di un cabalista ebreo di Venezia lo aiuteranno a superare la crisi creativa.
Il regista lo riassume dicendo che è una specie di giallo, ma ciò che lo interessa è la nozione della simultaneità del tempo. «Se esiste solo l’eterno presente, allora tutto il tempo scorre simultaneamente, e non c’è motivo per cui un ragazzo della malavita non possa essere la reincarnazione di Dante Alighieri. L’autore Nick Tosches non direbbe mai questo di sé, ma io posso farlo. Credo che Dante sia tornato sulla Terra perché sentiva che qualcuno aveva manomesso la sua opera», dichiara il regista.
A sua insaputa, Nick è Dante, e gli è stata data l’opportunità di correggere gli errori commessi settecento anni fa, e di rendersi conto che la donna che aveva ignorato nella sua vita passata è la stessa donna che incontra di nuovo nel XXI secolo, mentre cerca il manoscritto originale insieme a un assassino di nome Louie, che nel 1302 era stato papa Bonifacio.
Continua Schnabel: «Nella lotta per la perfezione nell’arte, le nostre vite possono essere meno che perfette, persino afflitte dal fallimento, ma tutto ciò che esiste al di fuori dell’opera d’arte non esiste. L’obiettivo è diventare la poesia. Dante e Nick ci sono riusciti. Io ci sto ancora lavorando. Tutto ciò che ho davvero da dire è nella mia arte».
Nel monumentale cast troviamo Isaac, Al Pacino, Gerard Butler, Gal Gadot, Jason Momoa, John Malkovich, Scorsese e tra gli italiani Sabrina Impacciatore, Claudio Santamaria e Franco Nero. Il film è stato girato soprattutto in Italia, tra Venezia, Palermo, Verona, Padova, Tarquinia e Bracciano, dove Schanabel ha deciso di ricostruire Firenze, così da evitare le orde di curiosi e turisti che affollano il capoluogo toscano.
