
Walter Colombo, inviato a Venezia
MOSTRA DEL CINEMA – Per la prima volta al Lido un film di animazione del regista giapponese Mamoru Hosoda, Scarlet, il più grande investimento produttivo in un film di animazione giapponese, acquistato e distribuito dalla Sony, considerata l’opera più filosofica del regista, autore d’anime giapponesi considerato secondo solo a Myazaki.
Una Terra dei morti, una principessa guerriera e un infermiere del Giappone contemporaneo, una storia dalle tinte shakespeariane ambientata, come spesso accade nei film di Hosoda, oltre il varco della realtà e anche dell’irrealtà, tra due mondi in comunicazione. La principessa Scarlet vuole vendicare la morte del padre, ma nel tentativo di riportare l’ordine nel regno viene ferita e la sua coscienza attraversa uno spazio temporale che la conduce nella Terra dei morti, dove la guerra contro l’assassino del padre si rivela una lotta interiore verso la ricerca di un nuovo senso della vita.
La Terra dei morti è uno strano limbo, in cui chi non porta a termine la propria vendetta è destinato a svanire nel nulla. In questa dimensione cupa, sofferente e altamente simbolica, Scarlet scava nelle profondità del proprio dolore e nel desiderio di vendetta insieme all’idealista Hijiri, un infermiere che le permetterà di esplorare la propria coscienza. Insieme trasformeranno il loro viaggio in rinascita e redenzione, riuscendo a spezzare il ciclo dell’odio e trovando un senso alla vita al di là della vendetta.
Mai come in questo suo lavoro, Hosoda unisce Oriente e Occidente ispirandosi a temi shakespeariani e al fantasy europeo, oltre che alla tradizione delle principesse Disney. Prosegue inoltre questa contaminazione anche in animazione, dove lo stile anime bidimensionale si arricchisce di più dettaglio nei volti.
«Mentre assistiamo a conflitti strazianti in tutto il mondo, credo che trovare l’amore e scegliere di vivere insieme, uniti, sia ciò che ci porterà verso una vita migliore. Ecco perché desidero condividere questo nuovo film con il mondo, ora più che mai», dichiara il regista.
Considerato tra i cineasti più influenti nel panorama dell’animazione nipponica contemporanea, Mamoru Hosoda si distingue per un approccio narrativo innovativo e profondamente lirico. Nato a Toyama nel 1967, dopo aver completato gli studi in pittura a olio, intraprende la carriera nell’industria dell’animazione entrando alla Toei animation. In seguito tenta di unirsi allo studio Ghibli: pur non venendo selezionato, riceve una lettera di stima da Hayao Miyazaki, segno del talento già evidente.
La svolta nella sua carriera arriva con la regia di film originali, capaci di fondere elementi fantastici, riflessioni sulla condizione umana e una sensibilità emotiva rara, il tutto espresso attraverso un linguaggio visivo unico e riconoscibile. Il successo internazionale arriva con La ragazza che saltava nel tempo, opera che gli vale numerosi riconoscimenti e lo consacra tra i registi più apprezzati del Giappone. Nel 2011 fonda il proprio studio creativo, lo studio Chizu, dando ulteriore impulso alla sua visione artistica. Il tratto distintivo del suo stile risiede nella capacità di bilanciare realtà e immaginazione, con una particolare attenzione ai rapporti familiari e generazionali. Questo approccio lo ha reso una delle voci più autentiche e rispettate nel mondo del cinema d’animazione globale.
Legato alla tradizione del disegno realizzato a mano, il regista ha utilizzato tecniche di realizzazione che combinano 2D e 3D creando un impianto visivo che sembra riflettere la complessità dell’animo umano. Del resto il regista l’ha pensato nel tentativo di raccontare una storia che «riflettesse i sentimenti reali di chi cerca risposte in un mondo sempre più complesso». Arriverà nelle sale italiane all’inizio del 2026.
Elisa esplora il concetto di giustizia riparativa
Liberamente ispirato agli studi e alle conversazioni dei criminologi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali nel saggio Io volevo ucciderla, il film Elisa, in concorso alla Mostra, è il quarto lungometraggio del regista due volte David di Donatello Leonardo di Costanzo. Il film si fa portavoce del concetto di giustizia riparativa ed è tratto dalla storia vera di un’assassina che, dopo aver ucciso la sorella, in carcere viene accompagnata dai due criminologi in un percorso di consapevolezza delle proprie responsabilità rispetto al crimine commesso.
Elisa, trentacinque anni, è in carcere da dieci, condannata per avere ucciso la sorella maggiore e averne bruciato il cadavere, senza motivi apparenti. Sostiene di ricordare poco o niente del delitto, come se avesse alzato un velo di silenzio tra sé e il passato. Ma quando decide di incontrare il criminologo Alaoui e partecipare alle sue ricerche, in un dialogo teso e inesorabile i ricordi iniziano a prendere forma, e nel dolore di accettare fino in fondo la sua colpa Elisa intravede, forse, il primo passo di una possibile redenzione.
«L’idea del film è nata durante la scrittura e la realizzazione di Ariaferma, il mio film precedente, e, in un certo senso, ne rappresenta una continuazione. Se Ariaferma era un film sulle relazioni in carcere, lasciando fuori campo i crimini commessi dai detenuti, Elisa è invece la storia di un percorso interiore, quello di una donna che ha compiuto un atto di estrema violenza», commenta il regista.
Il film si ispira alle ricerche sull’agire violento e sugli autori di crimini efferati, compresi quelli non derivanti da marginalità sociali, né da patologie psichiatriche. Crimini che colpiscono profondamente l’immaginario collettivo proprio perché commessi da persone apparentemente insospettabili: una tranquilla coppia, una persona dai modi garbati, una vicina di casa qualunque. Elisa è un personaggio di cui percepiamo la sofferenza, ma anche la freddezza e la capacità avuta nel manipolare le persone a lei vicine. Seguendo la sua vicenda, oscilliamo tra la comprensione del suo percorso interiore e il rifiuto profondo verso chi è stato capace di compiere un atto tanto estremo.
Ed è Barbara Ronchi a interpretare Elisa, «un personaggio con cui non puoi empatizzare perché di solito non vogliamo sentire le storie dei carnefici. Con Elisa, invece, ascoltiamo la voce di un essere umano che sa di essere colpevole, e vuole capire», dice Ronchi, che nel film recita in italiano e francese. Elisa non era stata voluta da sua madre, era considerata una bugiarda, una bambina viziata. E poi ha avuto un carico enorme nel portare avanti l’azienda di famiglia a vent’anni. Pian piano c’è un’implosione in una donna che voleva essere solo amata, accudita.
Alla domanda come ci si avvicinata a un personaggio così complesso ed enigmatico, l’attrice Ronchi risponde: «Ho letto il carteggio degli incontri dei criminologi con la protagonista reale della vicenda, che aveva rimosso completamente il suo terribile gesto. Attraverso quelle parole mi sono avvicinata a lei con molto pudore. Ho cercato di immedesimarmi in una persona che vuole sapere la verità su sé stessa, anche se sa che andrà incontro a un dolore profondissimo».
L’opera cinematografica propone una riflessione profonda sulla giustizia riparativa, dando voce anche ai familiari delle vittime, per i quali il perdono e l’accettazione risultano spesso impossibili. Tuttavia, non possiamo concepire una società che si limiti a rinchiudere e dimenticare, infatti, i detenuti, prima o poi, torneranno in libertà, ed è fondamentale che affrontino un percorso di consapevolezza che li prepari a reintegrarsi nel tessuto sociale. Solo attraverso questo processo è possibile evitare che restino imprigionati nel passato delle loro azioni, e al tempo stesso si rende omaggio alla memoria di chi ha subito il crimine.
Spesso siamo portati a pensare che il mondo sia diviso tra buoni e cattivi, tra chi trasgredisce la legge e chi no. In realtà, la linea che separa il gesto violento dalla sua assenza è estremamente sottile, e le motivazioni che spingono a compierlo non derivano necessariamente da follia, ma spesso da pensieri semplici e comuni. Questi pensieri, capaci di generare atti distruttivi, possono emergere nella mente di chiunque. La differenza sta nella capacità di riconoscerli e fermarsi prima che si traducano in azioni. In fondo, ciò che ci distingue non è l’assenza di impulsi negativi, ma il modo in cui scegliamo di non lasciarci definire da essi.
Un antico e maestoso ginkgo biloba
Il percorso cinematografico di Ildikó Enyedi ha spesso esplorato territori indefiniti, dove si intrecciano identità, percezione e il sottile confine tra realtà e immaginazione. Con Silent Friend, presentato in concorso al Festival di Venezia, la regista ungherese firma un’opera che indaga la comunicazione non verbale, il rapporto tra esseri umani e forme di vita non umane, e ciò che, pur non visibile, attraversa e condiziona il reale. Il titolo evoca una presenza silenziosa, capace di instaurare un legame profondo senza ricorrere al linguaggio parlato.
La struttura narrativa del film si discosta dai canoni tradizionali, privilegiando un racconto fluido e non lineare, che si muove tra il rigore scientifico e la sensibilità percettiva, tra l’osservazione distaccata e l’immersione emotiva, tra l’individuale e il collettivo. Nel cuore di un giardino botanico in una città universitaria medievale in Germania si erge un maestoso ginkgo biloba. Questo testimone silenzioso ha osservato per oltre un secolo i tranquilli ritmi di trasformazione attraverso tre vite umane.
Il film si sviluppa in tre episodi, ambientati nello stesso luogo, ma in epoche distinte. Il tempo, non è solo lo sfondo della narrazione ma parte attiva del racconto. Ogni segmento è girato con un linguaggio visivo diverso, pensato per restituire il rapporto dei protagonisti con l’esperimento e con la realtà che li circonda.
2020, Tony, neuroscienziato, lavora in un campus svuotato dal lockdown. La sua ricerca riguarda la coscienza e la percezione. In questa sezione, l’interazione con il ginkgo assume un carattere contemplativo. L’unico contatto umano è con Alice Sauvage, scienziata che studia la comunicazione vegetale e guida Tony in un campo che gli è estraneo. Le immagini digitali, precise e fredde, segnano la distanza tra osservazione e esperienza.
1972, Hannes, ragazzo proveniente dalla campagna, si muove in un ambiente culturale più aperto. L’università è attraversata da nuovi linguaggi e desideri collettivi. Il contatto con l’albero avviene in un clima informale, in cui il tempo sembra fluire in modo impressionistico. Le immagini sono girate in 16mm, con colori vivi ma imprecisi.
1908, Grete, giovane studentessa, entra in un’università interamente maschile. Osserva le piante e le fotografa in bianco e nero. Le sue immagini, ispirate a Karl Blossfeldt, mostrano l’elemento vegetale come struttura e come forma. In questa fase, il contesto accademico appare solido, gerarchico, formale. La narrazione segue i loro goffi e impacciati tentativi di stabilire dei legami, ognuno profondamente radicato nel proprio presente, mentre vengono trasformati dal potere silenzioso, persistente e misterioso della natura.
L’antico ginkgo biloba ci avvicina al senso dell’essere umani, cioè al nostro desiderio di sentirci a casa. Senza indulgere in visioni romantiche della natura, Silent Friend propone uno sguardo lucido e profondo sull’albero, trattandolo come un’entità complessa dotata di una propria percezione del mondo. Un essere che sfugge a una comprensione totale, ma la cui presenza è troppo significativa per essere ignorata.
La scelta di porre l’albero come compagno silenzioso consente al film di indagare le dinamiche attraverso cui l’essere umano tenta di stabilire un legame con ciò che è diverso da sé, ma non per questo distante. Un dialogo muto che apre a riflessioni sulla comunicazione, sull’alterità e sull’intima connessione tra specie.
«Ero un’adolescente negli anni ’70. Ho trascorso due anni importanti in Francia, a Montpellier, all’Università Paul Valéry, dove avevo ottenuto un permesso speciale pur essendo una liceale proveniente da oltre la Cortina di Ferro. Era un momento vibrante, post ’68, pieno di idee nuove. Proprio in quel periodo si parlava moltissimo dei primi esperimenti sulla comunicazione delle piante. Per me fu qualcosa di estremamente eccitante. Era un approccio molto ingenuo, certo, ma ciò che c’era sotto, una curiosità verso altre forme di vita, rimane tuttora valido», ha ricordato la regista.
Il male nella sua forma più paradossale
Quest’anno la Mostra del Cinema ha messo in scena il male nella sua forma più paradossale attraverso due opere in concorso profondamente diverse, ma unite da una tensione filosofica: L’Étranger di François Ozon e The Voice of Hind Rajab di Kaouther Ben Hania. Due prospettive distanti che si confrontano con l’assurdo, ciascuna a modo suo, condividendone lo sguardo dato dal filosofo Nicola Davide Angerame.
Ozon rilegge il celebre romanzo di Albert Camus del 1942, pietra miliare del pensiero dell’assurdo. Ambientato in una Algeri coloniale carica di tensioni, il protagonista Meursault appare estraneo al mondo e a sé stesso, incapace di aderire alle emozioni comuni. La sua lucidità lo rende al tempo stesso colpevole e vittima, in una società che non tollera la sua disarmante onestà.
Il regista francese, fedele allo spirito del testo, trasforma la luce crudele di Camus in immagini spoglie e taglienti, grazie a un bianco e nero che svuota la realtà e trasforma il sole in simbolo di bellezza e condanna. L’assurdo diventa così destino e il sacrificio dell’individuo riflette l’incapacità collettiva di accettare chi mette in discussione il senso stesso dell’esistenza.
Di tutt’altro tono è il film della regista tunisina Kaouther Ben Hania, che porta sullo schermo una tragedia reale e recente, la storia di Hind Rajab, bambina palestinese di sei anni, rimasta intrappolata nell’auto dei suoi familiari uccisi durante un attacco israeliano a Gaza nel gennaio 2024. Il film si costruisce attorno alla registrazione autentica della voce di Hind, che implora aiuto alla Mezzaluna Rossa, impotente di fronte alla situazione.
Ben Hania realizza un’opera di straordinaria intensità, dove la guerra e la morte non vengono mai mostrate direttamente, ma restano costantemente presenti, più forti di qualsiasi immagine. Se esiste un male assoluto, è forse qui, in questa voce che resiste all’assurdo fino all’ultimo istante, quando i soccorsi arrivano troppo tardi, impotenti di fronte all’orrore. Il silenzio, l’attesa, il rumore delle armi compongono la colonna sonora ingannevole di un mondo che fallisce nel proteggere il futuro.
Tra le due pellicole si apre un dialogo filosofico: da un lato l’assurdo universale di Camus e Ozon, che rivela l’uomo come straniero nel proprio tempo; dall’altro, l’assurdità storica di un genocidio che il cinema trasforma in memoria morale. Ozon scava nelle radici dell’esistenzialismo europeo, Ben Hania testimonia l’urgenza etica di un presente insostenibile. Entrambi i film ci costringono a guardare che sia attraverso lo sguardo impassibile di Meursault o la voce spezzata di Hind, il cinema si conferma come il luogo in cui l’impossibilità di dare senso al mondo trova la sua espressione più necessaria.
