Un film fatto per bene, titolo beffardo per Franco Maresco che gioca con le parole

Un film fatto per bene, titolo beffardo per Franco Maresco che gioca con le parole 3

Walter Colombo, inviato a Venezia

MOSTRA DEL CINEMA – Il regista Franco Maresco porta al Lido il suo film in concorso Un film fatto per bene, tornando così alla Mostra dopo il film La mafia non è più quella di una volta presentato nel 2019 e aggiudicandosi il premio speciale della giuria.

Un film fatto per bene, beffardo titolo che gioca con le parole per un’opera che nasce da un film su Carmelo Bene mai portato a compimento. Le riprese, infatti, vengono bruscamente interrotte dopo l’ennesimo incidente sul set. A staccare la spina è il produttore Andrea Occhipinti, esasperato dai ciak infiniti e dai ripetuti ritardi. Dal canto suo, il regista accusa la produzione di filmicidio, facendo poi perdere le sue tracce.

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A cercare di ricucire lo strappo è un amico di Maresco, Umberto Cantone, che chiama a testimoni tutti coloro che hanno partecipato all’impresa, in un’indagine che è l’occasione per ripercorrere la personalità e le idee dell’autore più corrosivo e apocalittico del cinema italiano. Il film è una autoironica, ma anche amara riflessione sulle proprie ossessioni personali, l’incapacità a concludere il film, il disprezzo per ciò che è diventato il cinema italiano, la voglia di fuggire e isolarsi da un mondo nel quale non si riconosce: tutti temi abituali di Maresco, del suo cinema e delle sue personalissime ossessioni.

«Da tempo mi sono accorto che ogni mio film non è stato altro che una trappola in cui mi andavo a infilare con impietoso autolesionismo. Stavolta, però, per la prima volta, ho paura che non ne uscirò bene, diciamo tutto d’un pezzo. Avrei dovuto dare ascolto ai consigli della signorina Filomena, la vecchia maestra che mi faceva il doposcuola alle elementari, la quale mi ripeteva sempre la storiella della gatta e del lardo, ma ormai è tardi per pentirsi. Tra l’altro, nel frattempo, il lardo è pure finito», dichiara il regista. Ma lontano da tutti forse Maresco sta ultimando il suo film che intanto è diventato «il solo modo per dare forma alla rabbia e all’orrore che provo per questo mondo assurdo». Una forma beffarda, ironica e autoironica, tra citazioni dotte, riflessioni amare e scene bizzarre per esorcizzare quella sorta di maledizione che condanna Maresco a non finire mai un’opera e che questa volta ha dato vita a quello che lui definisce il suo nuovo quasi film, in uscita nelle sale già da oggi.

Sacrificio e redenzione nel film del cinese Cai Shangjun

Cai Shangjun, regista e sceneggiatore cinese, presenta il suo film in concorso The sun rises on us all, già leone d’argento nel 2011 con People Mountain People Sea, l’approdo in concorso segna un primato perché è la prima volta di una produzione made in Guangdong nella selezione principale veneziana.

«Il sole, sospeso allo zenit, arde d’un rosso più intenso; la luna, pur ferita, è destinata a tornare intera». È da un distico contenuto nell’opera cantonese La forcina viola che scaturisce il titolo del film, promessa di ricomposizione che il regista suggestivamente trasforma in spunto narrativo. Lui si è sacrificato per amore, assumendosi la colpa di un crimine commesso da lei. Incapace di ripagarlo per il sacrificio compiuto, lei parte per iniziare una nuova vita.

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Molti anni dopo, gli ex amanti si incontrano di nuovo, tuttavia le loro vite quotidiane, separate ma inesorabilmente legate, tradiscono gradualmente il loro tragico passato. Tra chi cerca la redenzione e chi anela alla liberazione, i due si risvegliano dal loro vagabondare per un ultimo, straziante abbraccio in un doloroso e definitivo addio. Sacrificio e redenzione, questa è una storia che parla di valori morali. Un uomo si sacrifica per amore e si assume la colpa di un crimine commesso dalla sua amante. Eppure lei lo tradisce e se ne va. L’uomo e la donna sono amanti, eppure non si sopportano. Quando i due si incontrano di nuovo molti anni dopo, scoprono che il pentimento non porta perdono e il sacrificio non porta giustizia. Nel loro addio alla stazione degli autobus, si lanciano in un ultimo disperato tentativo di redenzione.

Il documentario sui festival musicali riporta negli anni Sessanta

Fuori concorso è invece il film Newport & the Great Folk Dream del regista Robert Gordon. Una musica potente esplode nell’aria e trasforma il mondo. Ai Newport folk festival dei primi anni Sessanta, quell’aria era elettrica di ribellione e democrazia, di rabbia e speranza. I musicisti erano gli apripista di quel cambiamento: Bob Dylan, Joan Baez e Pete Seeger, ma anche suonatori di banjo provenienti dalle terre del carbone, artisti gospel della Georgia, pescatori dei villaggi del Canada, e le opportunità per i ragazzi di città di socializzare con persone che altrimenti non avrebbero incontrato. Un film che sprigiona l’energia delle promesse e della gioventù.

I filmati proposti coprono gli anni dal 1963 al 1966, e documentano la rapidità dei cambiamenti. Il film rende vivo quel periodo, non solo nostalgico ma furente e ribelle, come oggi è impossibile solo auspicare. Una docu-storia carica di significato, con una durata di circa 99 minuti, il documentario fonde musica, storia e memoria per raccontare un’epoca vibrante e anticonformista. Inclusione di grandi figure come Cash e Dylan aggiunge pathos, mentre lo sguardo di Gordon narra l’anima di un festival leggendario e della sua eco culturale.

Un film fatto per bene, titolo beffardo per Franco Maresco che gioca con le parole

«Questo documentario è realizzato con filmati girati nei primi anni Sessanta e non potrebbe essere più pertinente a questo momento politico del XXI secolo. Durante la lavorazione abbiamo osservato gli Stati Uniti cercare di riportare il mondo ai sentimenti razzisti e nazionalisti dei primi anni Sessanta, protagonisti di questo film. D’altro canto, siamo rimasti profondamente colpiti dall’accoglienza che il festival ha riservato alle diverse culture, dallo scambio di canzoni e tecniche tra le generazioni, dalla lotta degli anni Sessanta per la libertà razziale ed elettorale.

Al Newport folk festival, persone che normalmente non si sarebbero incontrate hanno avuto la possibilità di stringere legami. Il festival si svolgeva nel solco della tradizione popolare viva, con gli anziani che condividevano canti e tecniche, i giovani che innovavano e si spingevano oltre i limiti. Stiamo vivendo un cambiamento radicale ora e speriamo che questo film ispiri più musica, più comprensione, più coraggio», dichiara il regista. Il film è ricco di sorprese e suoni insoliti. Un’esperienza musicale emozionante, Newport & The Great Folk Dream è un inno all’attivismo, abbraccia il grande schermo e, come la musica, non si tira indietro di fronte al potente messaggio che la democrazia prospera nella diversità.

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