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In Ucraina, dove ogni notte si cerca di sopravvivere al terrore russo [il reportage]

Edoardo Bosio, albese tra i fondatori del comitato Razom è tornato a Kiev e a Bucha. Ecco il suo racconto in esclusiva

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di Edoardo Bosio

IL VIAGGIO Mercoledì 8 ottobre. Arrivare a Kyiv in tempo di guerra non è facile. Lo spazio aereo ucraino è chiuso, quindi si viaggia solo in treno, in autobus o in macchina. Il mio viaggio è iniziato alle 17, dalla stazione centrale di Varsavia in Polonia. Alle 22.20 arrivo alla stazione di Przemyśl.

Dopo il controllo di frontiera polacco, salgo sul treno delle 23.55 che mi porterà a Kyiv. È qui che avviene il controllo di frontiera ucraino, prima della fermata di Leopoli. Superato quest’ultimo, cerco di addormentarmi.

NELLA CAPITALE

Rispetto al mio precedente viaggio, mi sento più preoccupato per gli attacchi della Federazione russa: questa volta alloggio nella capitale e non a Bucha; la mole di droni e di missili lanciati in un solo attacco è imponente rispetto al passato. E, con l’avvicendarsi dell’inverno, tendono a colpire più frequentemente per danneggiare le infrastrutture elettriche.

Giovedì 9 ottobre. Alle 10.30, arrivo a Kyiv. Cambio le valute, compro una Sim locale per avere connessione Internet stabile, scarico l’applicazione per l’allarme aereo e mi dirigo all’hotel Salute, dove mi dicono che sono il primo italiano ad alloggiarvi dall’inizio della guerra. Alla sera visito la città con conoscenze locali. Mentre sono in centro, alle 21.19 sento vibrare il telefono e scatta la sirena d’allarme. È fondamentale mantenere la calma e cercare lo shelter più vicino (il rifugio antiaereo, ndr), se presente. Trovo riparo, invece, in una metro poco distante, la stazione Arsenalna. È molto affollata: tutti gli abitanti della sponda sinistra del Dnipro devono aspettare la fine dell’allarme per tornare a casa. Alle 21.53, è rientrato… Ma è soltanto l’inizio di una notte di ordinario terrore russo.

GLI ALLARMI NOTTURNI

Arrivo in hotel e mi corico, quando alle 23.19 suona di nuovo l’allarme. Vedendo colorarsi di rosso intenso la mappa dell’Ucraina sull’applicazione, mi rendo subito conto che questa volta l’attacco è serio. Scendo immediatamente nel rifugio dell’hotel. Qui ricevo messaggi dai miei amici ucraini: mi dicono che sono in azione sia droni Shahed di fabbricazione iraniana, sia missili balistici e da crociera, tra cui il micidiale missile ipersonico Kinzhal (significa pugnale, in russo). Dal rifugio si sentono in lontananza i colpi delle mitragliatrici della contraerea per i droni. Rimango in dormiveglia tra le notifiche che si susseguono. Solo alle 5.30, alla fine dell’allarme, rientro nella mia stanza e riesco a dormire, almeno per qualche ora.

Venerdì 10 ottobre. Ero già stato qui, ma adesso, per la prima volta ho sperimentato il terrore russo. È mattina: si contano i danni e i morti. Leggo on-line: «Un attacco combinato russo con 465 droni e 32 missili ha colpito l’Ucraina, uccidendo un bambino e ferendo almeno 24 persone nel Paese, lasciando una parte della città senza elettricità e acqua». Vorrei farmi una doccia, ma non posso perché manca l’acqua. Mi vesto ed esco. Cerco un bar per poter far colazione e prendere un caffè, ma anche qui mancano acqua ed elettricità.

A BUCHA

Mi dirigo verso Bucha. Prima della guerra, la città era abitata da più di 30mila abitanti ed era tra le più vitali della sua regione. Durante le prime settimane di invasione russa su vasta scala, dal 27 febbraio al 31 marzo 2022, è stata distrutta e ha subito il massacro di 501 civili, brutalmente uccisi dai russi. La città è stata liberata nell’aprile del 2022 e da allora ha iniziato un rapido percorso di rinascita, anche grazie al supporto internazionale, ma il dolore non si può cancellare.

Ad agosto 2023 ero stato a Bucha per vedere in prima persona la situazione, incontrare l’Amministrazione locale e decidere a quale iniziativa destinare i fondi raccolti dal comitato Razom. Ora lo scopo è quello di supervisionare lo stato dei lavori del progetto sostenuto: la costruzione di un centro di riabilitazione per bambini con disabilità. Arrivo al cantiere, dove ritrovo Oleg Tsymbal, assessore all’istruzione, che mi mostra l’esterno e l’interno del centro. Mi conferma che i lavori sono nella loro fase finale e che il centro sarà operativo a partire dal nuovo anno. Mi sposto in Municipio, dove incontro l’Ufficio relazioni internazionali, con il quale sono rimasto in contatto dalla nascita del comitato.

CHI È

Edoardo Bosio, oggi studente al College of Europe di Natolin, a Varsavia, è di Guarene. Dopo la laurea in giurisprudenza e diverse esperienze, è tra i dieci studenti italiani che nel 2025
frequentano la prestigiosa scuola di formazione sul tema della geopolitica, oltre a essere l’unico piemontese. È tornato in Ucraina perché, due anni fa, ha fondato il comitato Razom, insieme ad altri due giovani, Romina Xuna e Davide Rosso. L’obiettivo era quello di raccogliere almeno 1 euro per ogni albese così da sostenere la ricostruzione in Ucraina. Il 14 febbraio 2024, il comitato ha stipulato un accordo di cooperazione con Bucha, impegnandosi a donare 35mila euro per sostenere parte dei costi della costruzione di un centro di riabilitazione per bambini con disabilità. Con il raggiungimento dello scopo, l’ente ha cessato la sua attività.

Sono felice. Razom vuole dire “insieme”, in ucraino. La missione originaria era quella di unire cittadini, associazioni, imprenditori e istituzioni di Alba, Langhe e Roero, nella consapevolezza che piccoli gesti di bene, sommati tra loro, potessero davvero trasformarsi in un aiuto concreto. E ho provato profonda gratitudine verso tutte le persone che hanno creduto in questo progetto.

«Speriamo che non bombardino il centro», mi hanno detto alcuni. Vorrei tranquillizzarli. Bucha è a un’ora di distanza da Kyiv e non è più un obiettivo militare strategico, come lo era nei primi mesi d’invasione, in quanto unica via per raggiungere e occupare la capitale. Grazie al coraggio e alle capacità delle forze di difesa ucraine, i russi sono stati espulsi dalla regione e, se non sono riusciti a prendere la capitale all’inizio della guerra, è impensabile che possano riprovarci adesso. Il rischio zero non esiste, ma la possibilità di attacchi in quest’area è piuttosto rara.

EPPURE C’È LUCE

Sabato 11 ottobre. Durante la mia permanenza ho visitato la città di Kyiv e questo è quello che ho osservato. Nonostante la guerra, nonostante gli attacchi di droni e missili, nonostante le perdite al fronte, nonostante le difficoltà, gli ucraini cercano di vivere normalmente la loro vita.

Dopo una notte senza sonno, la popolazione si sveglia senza elettricità e acqua. Uomini e donne devono andare a lavorare, accendendo generatori di emergenza, cercando di fare ciò che si può. Si continua a studiare. Gli impegni quotidiani restano. Si va a correre nelle vie e nei parchi, si praticano gli sport. Ci si dà appuntamento nei bar del centro. Vengono inaugurate mostre d’arte, come “Ukraine wow”, presso il binario 14 della stazione ferroviaria centrale. È un’installazione interattiva con l’obiettivo di immergere i visitatori nel patrimonio culturale ucraino e nella sua memoria storica, la forza per creare il futuro. Mi dicono che si va a ballare, ma a partire dalle 18 con chiusura prima del coprifuoco, che inizia a mezzanotte e finisce alle 5 del mattino.

IL PREZZO DELLA LIBERTÀ

Come si può vivere così? Me lo chiedo mentre osservo queste persone. È fondamentale rimanere ottimisti e cercare di trovare la gioia nelle piccole cose: credo sia questa la risposta. Sotto minaccia continua, il peso che si dà alla vita forse è diverso e ogni secondo è importante, perché potrebbe essere l’ultimo.

Domenica 12 ottobre. Devo partire per tornare in Polonia e per seguire le lezioni del lunedì al College of Europe a Varsavia. Decido di fare un ultimo passaggio a piazza Maidan, per ricordarmi il costo della guerra. È il simbolo della rivoluzione popolare del 2014, con la quale l’Ucraina si è riavvicinata al sogno europeo. Un sogno di democrazia, d’indipendenza, di libertà. Ma il prezzo per questo sogno è caro. Nel giardino della piazza, viene posta una bandiera per ogni soldato caduto. Due anni fa, si riusciva a vedere il prato. Oggi non si vede più. Suona un nuovo allarme aereo.

La forza di volontà e la resilienza del popolo ucraino è impressionante. Ma è necessario essere realisti. Io sono stato a Kyiv per quattro giorni, ma loro stanno vivendo una guerra totale da quasi quattro anni. I soldati restano al fronte senza rotazione, si continua a combattere e a morire. La popolazione è stanca e l’inverno che si avvicina potrebbe essere il più duro.

Se davvero crediamo che democrazia, indipendenza e libertà siano i valori alla base del nostro modo di vivere, dobbiamo essere coerenti con i nostri principi e con noi stessi. La Comunità internazionale e i Paesi europei dovrebbero continuare a sostenere l’Ucraina. Ciò significa, prima di tutto, aumentare la pressione su Mosca inasprendo le sanzioni già in vigore. Ciò significa inviare all’Ucraina quello di cui oggi ha bisogno, a partire da aerei, sistemi d’attacco e sistemi di difesa.

IL RIENTRO

Prendo il treno che mi riporterà di nuovo in Polonia. La preoccupazione è costante anche qui: il giorno prima, la linea Kyiv-Varsavia è stata bloccata per un allarme bomba sui treni e i passeggeri sono stati costretti a scendere tra i binari.

Si parte alle 12.05. Questa volta il controllo di frontiera ucraino, dopo la città di Leopoli, è molto rigido. A tutti gli uomini ucraini viene chiesto il passaporto e i documenti che certificano il motivo della loro uscita dal Paese. Arrivo a Przemyśl alle 21.45. Percorro l’ultima parte del mio viaggio con un Flixbus delle 23.05. Arrivo a Varsavia alle 5.30 di lunedì 13 ottobre. Sono tornato.

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