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Giacomo MORRA l’uomo che “inventò” il tartufo bianco

Era un uomo sottile, con il cranio calvo e tondo e lo sguardo acuto; attraverso le fotografie si ricava l’impressione di una persona distinta e sapientemente soddisfatta. Sempre, inappuntabilmente, in giacca e cravatta, in alcune pose somiglia al suo quasi coetaneo Dashiell Hammett; in altre lo si direbbe un personaggio del Far West: una di quelle figure di frontiera, tra il giudice e il mercante, il dottore e il giocatore, uno spirito avventuroso, insomma, nascosto in un fisico segaligno.

Giacomo Morra
Giacomo Morra in una tra le meno viste
delle numerose immagini che lo ritraggono
con un tartufo in mano.

 

A cinquant’anni dalla morte, Giacomo Morra (1889-1963) resta bene insediato nel panorama storico e sentimentale di Alba: il suo nome è stabilmente legato alla Fiera del tartufo, che si era inventato alla fine degli anni Venti scommettendo sul suo potenziale evocativo, prima ancora che sulla sua consistenza effettiva, sul mito prima che sulla cronaca. In nome del tartufo, e intorno al suo hotel Savona (rilevato declinante nel 1928, raddrizzato e rimodernato), Morra ha costruito un’impresa commerciale di dimensioni ragguardevoli nel campo della ristorazione e di ciò che oggi chiamiamo facilmente catering, ma non solo: si potrebbe quasi dire che abbia creato un mondo, istruito un sistema compiuto di cui controllava, dai fondali alle comparse, ogni singolo elemento. Chi entrava nel sistema Morra, in qualità di avventore o fornitore o dipendente, ne era come assorbito; e ancora oggi che tutto questo è solo un ricordo, e che possiamo “entrarci” solo come uditori, percepiamo ugualmente, nella testimonianza di chi c’era, la centralità del suo carisma, l’impronta della sua “regia” – anche fatta la prevedibile tara agiografica alle memorie di un passato glorioso.

Originario di La Morra, figlio di contadini mezzadri dei conti di Castiglione Falletto in una piccola cascina al Gallo chiamata Marescotto, Giacomo si stacca giovane dalla terra: il fisico gracile e una mentalità vivace lo spingono ad andarsene, ad aprire una serie di attività che passo dopo passo lo portano ad Alba (a dirigere un primo albergo), poi a Torino (a rivendere vino e tartufi), quindi definitivamente ad Alba, a risollevare le sorti del Savona e a farne l’epicentro della sua attività. Il Savona era l’unico hotel in città: un luogo esclusivo, che riservava la sua accoglienza a ufficiali e notabili – con la conseguenza di non aver un giro di affari sufficiente a sostenere la gestione.

Morra opera drastici cambiamenti: abolisce la hall, e all’ingresso mette un bar; sotto i portici che danno su piazza Savona, alle quattro del mattino compone una particolare “natura morta”: lascia in vista su un tavolino tre tazze sporche di caffè dalla sera prima, per dar l’impressione che il bar sia sempre aperto. È solo una delle mille “malizie” di quello che si avvia a diventare il “re dei tartufi”. La famiglia è al suo fianco, in un gioco di squadra: il fratello maggiore Matteo (che farà da padre ai sei fratelli, rimasti orfani quando Giacomo ha due anni) lo assiste e consiglia nell’acquisto di bestiame e selvaggina; la moglie Teresa è una complice assennata e instancabile; i figli (i tre maschi Francesco Mario, Giorgio, e la primogenita Giuseppina, colei che, sposata, sarà l’animatrice del Salotto Bellonci in casa Masera, e che fin da ragazza affiancò i genitori, rinunciando agli studi superiori in favore dei fratelli) lo seguiranno nell’impresa commerciale, sviluppandola ancora, fino alla cessione di un marchio consolidato. Detta così, è la parabola esemplare di un’azienda a conduzione familiare della provincia italiana. Ciò che rende la storia più interessante per chi guarda da fuori, oggi, da lontano, è la somma di due fattori: il carattere avventuroso di Giacomo Morra e il potere suggestivo del tartufo.

Morra ha saputo come pochi raccontare e far raccontare le sue gesta: con astuta nonchalance, con tattiche di messa in scena più o meno dissimulate e certamente con il divertimento di un vecchio istrione, è stato, a modo suo, un uomo di spettacolo. Prima che anche nelle più lontane province prendessero vita gli addetti stampa e fiorissero i teorici delle pubbliche relazioni, sapeva calcolare in anticipo il potenziale di risonanza di un fatto (vero o verosimile) presentato nel modo giusto alla persona giusta: il famoso turismo enogastronomico è nato con lui; l’esportazione del «nome di Alba nel mondo» si deve anche ai suoi barattoli marchiati Tartufalba. Fin dagli anni Trenta, oltre a tajarin spolverati di tartufo, Morra è stato in grado di offrire ai giornalisti – italiani o stranieri che fossero – quel tanto di pittoresco e di curioso che da un lato garantiva loro la materia per una cronaca con un po’ di colore, dall’altro permetteva a lui di somministrare al pubblico, a dosi progressive, il mito del tartufo – cioè, in fin dei conti, il suo stesso mito.

Era un mito fondato sul lavoro tenace di un’impresa familiare, sulla scommesse commerciali e innovazioni di prodotto, su una struttura ricettiva di alto livello (anche “esportabile”, con camion frigoriferi, cucine mobili e la capacità di gestire un catering per centinaia di persone là dove richiesto dal cliente); ma era anche alimentato da episodi straordinari, exploit inattesi, trovate tanto azzeccate quanto rappresentative. Ad esempio, intorno al tartufo spedito a Marilyn Monroe nel 1954 (anno perfetto, essendo quello della consacrazione definitiva della diva) è gemmata una catena di aneddoti che possono essere autentici o autentici ampliamenti affabulatori, chissà?, come quello che vedrebbe un emissario di Joe Di Maggio (o Di Maggio stesso?) comparire sulle Langhe, per acquistare a Roddi un provetto cane da tartufo… Oppure: della permanenza all’hotel Savona di Alfred Hitchcock e della moglie Alma Reville, nell’autunno del 1960, si sono persi i contorni: una notte o una settimana, a sentire questo o quel racconto, tempi dilatati al punto da far intravedere un intrigante abbozzo di soggetto (o di sceneggiatura?) di un possibile thriller del mago del brivido incentrato sui tartufi… Oppure ancora, il tartufo bianco omaggiato nel 1951 al presidente degli Stati Uniti Harry Truman, divenuto istantaneamente, per il suo peso (2.520 grammi, 75.000 lire di allora), un modello irraggiungibile, che ha del favolistico: come un monolito piovuto da un altro pianeta, sarebbe infatti stato trovato da Giacomo Morra stesso, poco fuori la circonvallazione di Alba, sotto una quercia… Inutile sarebbe – e persino fuori luogo – andare a rivedere, a rivalutare ogni singola ramificazione del discorso; provare a ipotizzare, ad esempio, che l’americano visto a Roddi potesse essere il cronista Robert Littell (lui sì, nel 1952, consensualmente “sedotto” da Morra, che lo aveva portato, tra l’altro, a visitare l’università dei cani da tartufo di Giovanni Battista Monchiero detto “Barot”); a commentare che Alfred Hitchcock aveva un istinto commerciale almeno pari a quello di Morra, e ovunque si trovasse nel mondo poteva gratificare gli aborigeni annunciando film ispirati alle più folcloristiche tradizioni e tipicità locali; a sottolineare che Giacomo Morra non aveva bisogno di trovare personalmente nessun tartufo, gigantesco o mignon che fosse, avendo da tempo stabilito una fitta rete di contatti con i contadini e i trifolau, diventando «il più grande azionista della borsa-tartufi », come si legge su una rivista dell’epoca.

Non ha importanza, e anzi sarebbe un peccato: «Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda», certifica la celebre battuta finale de L’uomo che uccise Liberty Valance, spiegando perfettamente il nostro bisogno di miti. Giacomo Morra (che a detta del figlio Francesco non aveva mai visto un film in vita sua, western o altro) è stato senz’altro un “pioniere”, e ha intercettato gusti e curiosità della gente, sapendo parlare a tutti, grazie a una spiccata capacità di osservazione dei tipi umani: dai contadini che scendevano all’alba dai paesi per fare i mercati, ai cittadini, borghesi e notabili, che frequentavano le sale del suo albergo-caffè-ristorante. Pioniere lo è stato nelle strategie di marketing, senza bisogno di corsi specifici: trovato il metodo per conservare inscatolato il tartufo, ha preso a omaggiarlo occhiutamente a divi del cinema e potenti della terra: faceva già notizia la spedizione in sé, se poi fosse arrivato un riscontro da parte della celebrità di turno, meglio ancora. In un servizio pubblicitario di fine anni Cinquanta si scriveva che «più di centomila scatole di tartufi partono ogni anno da Alba. New York, Cambridge, Caifa, Tokyo: le strade dei ghiottoni sono infinite. I fratelli Morra forniscono tutte le ambasciate e le legazioni italiane sparse all’estero. I più celebri cuochi del mondo si ritengono fortunati quando possono offrire ai clienti un fumante piatto di tagliatelle innaffiato dai tartufi d’Alba».

Giorgio Morra
Giorgio Morra

Il suo talento per la sorpresa non lo abbandona neanche all’ultimo. Giacomo Morra muore per una emorragia cerebrale il 18 dicembre 1963, a 74 anni, poco dopo Beppe Fenoglio, poco prima di Pinot Gallizio. Muore proprio nei giorni in cui sta organizzando i festeggiamenti per il centenario dell’hotel Savona e i cinquant’anni di matrimonio con Teresa: «Sabato scorso», scrivono nel suo necrologio, «si era recato personalmente al mercato per fare provviste (…) intendeva offrire un pranzo di gala ad autorità e amici». Si è affaticato, è reduce da un’influenza; quando le sue condizioni peggiorano, il suo medico Michelangelo Masera (che è anche suo genero) ne intuisce la gravità, ma il ricovero a Torino, alle Molinette, è inutile. Quello che il dottor Masera non sa – e che nessuno in famiglia neppure sospetta – è che suo suocero, tutto preso dall’idea della festa e disobbedendo alle prescrizioni, si era alzato a notte fonda, sfidando il freddo, per andare a scegliere un vitello pregiato da far macellare. Qualche giorno dopo il funerale, molto timidamente, porgendo ancora sentite condoglianze, il proprietario della bestia passa dai suoi figli – e viene creduto soltanto quando esibisce il biglietto firmato Giacomo Morra: una firma che da decenni, sui mercati, era l’equivalente di moneta sonante.

Edoardo Borra

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