
Sabato 5 novembre 1994 ho dieci anni. Sabato: col tempo pieno, sono a casa da scuola.
Faccio i compiti, guardo fuori dalla finestra della mia stanza. Dà su un canale.
La pioggia scende incessante. Ancora, ancora e ancora.
Il livello dell’acqua sale; alla sera ormai il canale è straripato, e la corrente porta pezzi di legno, oggetti.
I telefoni smettono di funzionare. Salta la luce. Niente riscaldamento. Alla sera mio padre chiede alla signora del pian terreno rialzato se vuole venire da noi, all’ultimo piano: lei sta guardando l’acqua salire, piano piano, lungo gli scalini, alla fine sfiorerà solo il pianerottolo, senza entrare in casa. Non hanno la stessa fortuna i palazzi vicini, che hanno il pianterreno a livello strada: lì l’acqua arriverà quasi fino al primo piano.
«Ricordo il giorno dopo, mio padre che mi porta in spalla, per lasciare Alba alla volta del Roero»
Ricordo il giorno dopo, mio padre che mi porta in spalla, lasciare Alba per il Roero, in quattro nella cabina del camion di mio padre. Si prova prima la tangenziale, ma è chiusa, vicino ad Aimeri c’è una macchina bloccata in mezzo al fango, un giubbotto sporge dal finestrino (scopriremo poi che era una collega di mamma, che cercava di mettersi in salvo col marito). La coda sul ponte albertino, poi, sembrava infinita.
Da allora, guardare la pioggia non è più stato un piacere, ma qualcosa di cui aver paura.
Elisabetta Negro
